la signora 3

leo62

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Con la signora la fine concise con l’inizio, dinanzi al computer. Fui presentato al figlio e alla governante, giunti inaspettati in cucina, come il tecnico del computer. Il ragazzino segui con attenzione le mie false manovre e alla fine pretese che dessi una occhiata alla sua playstation nella camera da letto dei genitori. La governante, tracagnotta e diffidente, mi squadrò dalla testa ai piedi e sgomberò il tavolo senza domande. La signora se ne stette in disparte, visibilmente tesa, finché accompagnandomi alla porta mi disse ad alta voce che l’indomani sarebbe passata in negozio a ritirare la fattura e a saldare il conto. Non si fece più sentire ed io non la cercai.

Erano passati quasi due anni dal primo incontro sul divano di casa. Poche regole. Niente telefonate né comunicazioni social network. Di volta in volta ci davamo appuntamenti in luoghi sempre diversi e a distanza di tempi variabili. In casi estremi messaggi, ma capitò poche volte. Potevano trascorrere anche settimane tra un incontro e l’altro oppure pochi giorni e ci furono incontri che si susseguirono quotidianamente.

Una volta mi pregò di non incularla perché nel giorno precedente ce ne eravamo saziati con reciproco divertimento e l’aveva ancora in fiamme. Un’altra volta fu costretta a dirmi che era stata obbligata a darlo a suo marito e che lui pur imburrandola l’aveva fatto sanguinare. Non l’ascoltai. Nel primo caso la presi di sorpresa e completai l’opera del giorno prima. Nel secondo caso fu lei a cambiare idea e chiedermi di essere visitata di grazia dopo che mi ero mostrato offeso e le avevo promesso di non prenderla più dove il suo consorte mostrava tante attenzioni e lei tanta accondiscendenza. Insomma tante storie con me e con lui era lei ad andare a prendere l’intingolo. E pure me lo raccontava col tono risentito da bastianella trafitta mentre poi era sempre lei che nei fatti si metteva a pecora per farsi bene imbottire. Così quella volta le dissi che si poteva scordare il mio uccello in culo e che anzi il suo culo se lo poteva tenere stretto, imburrato e dolorante tutto per il consorte. Non se lo aspettava. Mi guardò stupita mentre ribadivo il concetto, quindi incominciò a mettere in atto un intero repertorio di smancerie dando giudiziosa di bocca, di mani e scivolando con i capezzoli sopra la cappella. Alla mia finta, ma totale, indifferenza oppose, in fine, il suo tormentone: Voglio essere inculata… Sapeva l’effetto che queste parole erano solito produrre, ma quella volta non sortirono alle conseguenze previste. In parte ero davvero infastidito dall’incursione coniugale nei nostri cunicoli personali, dall’altro lato volevo vedere sino a che punto lei si sarebbe spinta. Piegata di fianco col culo ben in aria, diciamo pure pronta, si era sempre rifiutata di allargarsi le chiappe con le mani ed offrirsi palpitante. Dovevo essere io ad aprirle le natiche, ungere la rosetta, provare con un dito e un altro dito e, al cedere a succhiotto dello sfintere, ritirare le dita e dare con il cazzo. Quella volta fu lei che ad un certo punto scattò a pecora sul letto, si aprì le guanciotte con le mani e mostrò fidente il pertugio che a prima vista mi sembrò alquanto arrossato. Se in quel momento non avessi fatto la parte del sostenuto e lei non si fosse messa nella posizione che esigeva suo marito, l’avrei presa all’istante, invece un paio di minuti dopo uno schizzo denso e abbondante le bagnò il viso mentre lo sollevava dal cuscino per vedere cosa le capitasse attorno. Ingoiò stupita e risoluta quel tanto che le era andato in bocca e senza la cortesia dell’amarena. Trenta minuti dopo me la inculai a modo mio e senza tante noie.






In auto nei pomeriggi invernali, o nella calura estiva, in qualche strada periferica o nella piazza deserta di una stazione ferroviaria di paese le mie mani ritrovavano il desiderio umido tra le sue gambe. A volte capitava che, mentre lei parlasse delle piante, del cane, del figlio, della casa, del lavoro e di tutto il suo universo, senza neanche accorgersene rinserrasse le cosce sulle mie dita sussultando e allora si fermava e stupita accennava al fatto che il suo corpo se ne andava per i fatti suoi e si crucciava che la sua testa fosse presa dai suoi problemi e che però le quelle sue scosse erano il segno che vederci faceva bene a lei e, ne era convinta, anche a me. Lievitato lo voleva tra le mani, sul petto e al gioco della sua lingua.


Un giorno entrò in macchina allegra esibendo un sacchetto bianco. Eravamo di mattina nella piazza di un paese. Volle che prima di baciarci indovinassi il contenuto del sacchetto. Non ricordo quanti chilometri avessi fatto per incontrarla in quel posto. Sapevo di avere poco tempo e che, considerato il luogo, non avremmo potuto fare niente. Non ci vedevamo da quindici giorni. Ne sarebbero passati altrettanti prima di poterci rincontrare in una situazione più tranquilla. Tentai di aggirare il gioco del sacchetto, ma non ci fu niente da fare. Acqua, acqua, fuocherello, capii che si trattava della colazione, fuoco, due sfogliatelle che tirò fuori trionfante. Sgranocchiai il pasticcino di malavoglia. Era sicuramente di giorni prima al limite del commestibile. Lei masticando a sua volta mi guardava raggiante in attesa di una minima approvazione o, quanto meno, ringraziamento. Invece a metà mi fermai e le dissi chiaramente che non era mangiabile. Ci rimase male. Prese dalle mie mani l’avanzo e usci fuori dall’auto. Pensai che andasse da qualche parte a buttare il tutto. Guardai dallo specchietto retrovisore e la vidi con la sua gonna leggera entrare nella sua macchina. Pensai che stesse andando via e distolsi lo sguardo ancora più incazzato. Aspettai il rumore dell’accensione. Niente, la sua macchina rimase ferma. La piazza non era affollata ma c’erano sfaccendati che sicuramente avevano registrato novità e movimenti. Stavo per dare un’altra occhiata dallo specchietto esterno quando lo sportello si aprì e lei rientrò, si sedette comoda con una espressione saputella. La guardai curioso e lei sorridendo mi diede un sacchetto del tutto simile a quello delle sfogliatelle. -Spero che siano più fresche, mi disse.- Era lo stesso sacchetto, lo aprii. Tra bricioli di sfoglia e zucchero vanigliato trovai un paio di mutandine di cotone bianco. Le tirai fuori, erano malassate dei sui umori. I pochi centimetri che ci dividevano divennero l’incolmabile. Non potevo toccarla e lei non mi poteva toccare, troppi occhi ormai ci vedevano senza guardare, ma la voglia moltiplicò all’impossibile. Quel giorno fu libera e zuppa, come mai le fosse capitato, per nulla. La mia erezione si perse, ritornò e si riperse nella strada del rientro ma passarono giorni prima che quell’indumento stropicciato diventasse uno straccetto insignificante.

Quando decidevamo per il mare lei conosceva i luoghi adatti. Mi portava in immense spiagge nere, lungo scogliere bianche, tra i ruderi di calette malandrine. Lei parlava degli anni del liceo, delle amiche e dei primi fidanzati ed io sapevo che una volta giunti nel posto giusto, qualsiasi fosse l’argomento del delle sue chiacchiere, in modo distratto ma perentorio, avrebbe detto: -.voglio scopare- per poi riprendere del prof. Bernasconi, del compagno Baron, dell’amica Rossi, mamma Tina, - bei tempi…- cantilenava come se dovesse continuare la frase invece decisa insisteva: - voglio scopare.- Le piaceva giocare d’emergenza come se fosse necessario farlo subito o non ci fosse abbastanza respiro, la scopata, doveva sostituire concretamente il non detto: bei tempi…oggi è uno schifo.
Ci toglievamo gli indumenti in eccesso adagiandoci sulla sabbia. Io da dietro le accarezzavo le spalle, le sfioravo i seni, lieve le inclinavo un capezzolo, poi l’altro e scendevo giù per i fianchi sino alle gambe, all’interno delle sue cosce che si faceva teso. Lei si stendeva lunga di lato, con un movimento netto spostava il cavallo del costume olimpionico e si lasciava libera tra le natiche. La prendevo da dietro col pisello ritto e la chiavavo, tenera, senza sforzo. Riuscivo a reggerla in canna per intere mezzore anche oltre le sue scosse risolutive.

Il tempo dei dubbi e delle domande venne alla fine del nostro primo anno. Fu esplicito quando, al ritorno di una sua vacanza in famiglia con gita a Gardaland, fermi in auto lungo il viale alberato della piscina comunale, mentre stava per insalivarmi la cappella, lei disse: si, ma…non devo farmi domande. E proseguì sospesa in uno dei suoi monologhi linguacciuti. -… che ne dici… che cosa ne pensi… che te ne sembra… cosa faresti…, ma perché non… considera che… - Rifletteva, col mio cazzo in pugno, sul fatto che le piacesse e lo volesse ma anche che marito, figlio, padre, madre, cane e piante non meritassero il suo comportamento di moglie disonesta, cattiva madre, figlia ingrata e padrona assente. Spostando la mia mano dalla sua nuca voleva un mio parere in merito. Non ero preparato e le dissi che anch’io a volte mi sentivo a disagio.

Da quel giorno iniziò con i ritardi, dapprima in modo insignificante, poi i minuti si sommarono sino a diventare ore. Gli sms che mandava erano impropri e fuori tempo ma con nuovi appuntamenti.
Una domenica mattina doveva venire a casa mia alle dieci e alle dieci e cinque mi mandò un sms dicendo che ritardava. Seguì un altro sms alle dieci e trenta e altri a intervalli irregolari che posticipavano l’incontro. Sapeva che sarei dovuto necessariamente uscire alle tredici e alle dodici e cinquantacinque mi scrisse che stava per passare da casa. Mi costrinse a risponderle annullando l’incontro. Giorni dopo, di presenza, fui deciso e brusco nel rinfacciarle il suo comportamento. Lei si scusò, giurò di non avere colpa, mi lusingò con promesse di puntualità e tuttavia mi lasciò intendere che esageravo e, dopo un giro di moine, mi disse compiaciuta: - mi piace quando ti incazzi.- Non credo fosse orgogliosa della mia durezza o del fatto che riuscisse a farmi perdere le staffe, era il suo modo di sfidarmi e pertanto triplicai l’incazzatura. Con rabbia le gridai che quello sarebbe stato il nostro ultimo incontro e che non potevo più tollerare lei e il suo modo di vivere il nostro rapporto. Impallidì. La presi per il braccio e la spinsi verso la porta. Mi pregò di non farlo, voleva parlare spiegare. Ansimò che, si, era colpa sua, ma senza di me la sua vita non avrebbe avuto senso. Le dissi che a dare senso alla sua vita le sarebbero bastati marito, figlio e tutti i matti che aveva tra le mani. Non volevo essere gestito da i suoi capricci o, peggio, dalle suo cattivo umore. Per me ormai la storia era finita. Scoppiò in lacrime abbracciandomi. Cercai di respingerla e si avvinghiò ancora più forte. La strattonai e lei scivolando si rifugiò nella poltrona. Mugugnò: -sarò la tua puttana.- Mi venne duro. Era vestita in modo simile al nostro primo incontro, pantaloni e camicetta di lino- Non basta più, capisci? è finita. Non puoi scassare i coglioni per rifarti il culo e pararti l’anima.-
Affondò lentamente nei cuscini. Piangeva in silenzio trastullandosi con i bottoni della camicetta. Incalzai:- lo capisci o no?- Lasciò cadere i sandali e ritirò le gambe accovacciandosi. A voce bassa, lentamente lamentò che suo padre, ingegnere, la batteva con squadra e che lei, piccola sfacciata, lo sfidava dicendo di non sentire niente e ancora delle docce gelate che sua madre le somministrava a notte fonda per i ritardi e che anche suo marito una volta l’aveva legata al letto per punirla di non so quale pretesa, e poi la playstation in camera da letto era un ricatto da parte di suo figlio… E… tutti questi tormenti caserecci non erano bastati, né sarebbero bastati... a farle cambiare carattere, la sua indole che lei, indomata, detestava.

L’uccello pressò nei pantaloni e il gioco mi cominciò ad essere chiaro e complicato. Mi venne in mente la biografia di non so quale un santo dove il futuro eletto consegnava le ramaglie, da lui raccolte nei campi, alla madre per essere castigato e anche ricordai il cucchiaio di legno di mia nonna e l’histoire d’0, e ancora che ragazzo avevo visto il vicino di casa ateo al balcone minacciare figli e nipoti con la cinghia in mano e così invece di farle saltare il bottone della camicetta e spagnoleggiarmela alla grande, le dissi ispirato:- se avessi avuto un giardino saresti stata tu stessa a raccogliere e preparare i rami per essere corretta, ma il giardino non c’è e ci dobbiamo accontentare di questa…- e mi toccai la cintura con i pollici delle due mani. Lei si morse appena il labbro inferiore con un brivido. – colpi…- Continuai acido. - Deciderai tu – anticipò serissima.
Volli che si alzasse e la feci girare col viso rivolto alla spalliera. Tentennò quando le chiesi di chinarsi e di reggersi ai braccioli della poltrona. Le dissi che era libera di andarsene e che comunque non volevo perdere tempo. Aveva bisogno del bagno. La obbligai a lasciare la porta aperta. Mi pregò di evitare. Non l’ascoltai. La guardai sbisognarsi come mai aveva permesso. Si liberò con un sospiro e socchiudendo gli occhi concluse con un soffio impercettibile. Tornò alla poltrona. Trovò la posizione. Le diedi tre colpi a mano nuda. Lei sussultò al primo scarso, non fiatò per il resto. Si buscò altre due sculacciate. Rimase immobile. Le dissi di abbassarsi i pantaloni. Ubbidì. Doveva togliersi le mutandine. Lo fece. La colpii ancora due volte con le mani ma questa volta indugiai, a colpo dato, sul didietro e a seconda botta, tra le natiche. Era guazza. Le diedi il colpo più deciso sbottonandomi la patta e il cazzo venne fuori a molla. Cadde sotto il mio peso sulla poltrona, mugolò: –prendimi – e se lo strinse teso e lo mollò grosso tra i suoi umori, una, due volte, elastica, tre, sino a condurmi al centro delle sue scosse. Continuava a balbettare:- non pensare a niente, ti prego - Venni. Sudato, una mano ferma sul suo fianco e l’altra a morsa sulla sua spalla, volli che girasse il viso, ansimava: -Grazie…- Scivolai di lato e lasciai che andasse in bagno raccattando veloce ciò che di suo era a terra. Sentii netto la schiumata e lo scroscio dell’acqua, non aveva chiuso la porta. Al ritorno era già vestita. - Non ti avevo detto di vestirti- dissi ironico lasciando che non dimenticasse il nuovo gioco. -Ho fatto tardi, devo scappare… perdonami…- dandomi un bacio guadagnò la porta e mentre stava per entrare in ascensore: -… ma devo credere ancora alla tuacinghia?-

Le prese qualche tempo dopo quanto meno se la aspettava. Quel giorno a casa mia aveva fretta e avrebbe voluto cavarsela con un pompino liscio. Si beccò invece una sveltina in piedi con le mani appoggiate al muro. Quando sentì che uscivo dalla fica si piegò ancora di più e protese meglio il culo. Lo aveva già innevato di crema. Avevo intuito che le sue preferenze anali corrispondevano ad una precisa strategia anticoncezionale. Finire in culo era praticamente d’obbligo. Svincolai la cintura che mi penzolava dai pantaloni, la ripiegai all’uso e senza avviso le colpii cosce e natiche con una croccante sventagliata. Al primo colpo gridò sorpresa, il resto lo prese con qualche saltello e un mugolio sommesso. Non contai un bel niente e non attesi ringraziamenti, ma, alla fine, le schizzai sopra.
-Con tutta la fretta che avevi te lo sei ingrassato bene-
-Che cazzo dici…- borbottò massaggiandosi il didietro
-dico che oggi hai preso il cazzo che non ti aspettavi-
-Ma se lo sai che lo faccio per te- ribatté risentita.
- e mi pareva… – a scatto mi guardò storta mentre cercava di dare una occhiata alle natiche.
- non so come riuscirò a giustificare questi lividi a casa- Era un po’ arrossata.
La rassicurai: -Fra due ore non si vedrà più niente e poi puoi sempre dirgli che sei scivolata malamente in piscina.- Lei abbassò il capo e continuò a spalmarsi il mio sperma sul didietro. Continuai: -Stasera avrai comunque un buon motivo per non farti inculare.-

Mi piaceva lo scostare della gonna, mi piaceva il candore rassegnato delle natiche al calare delle mutande o all’incunearsi del cotone tra le chiappe, mi piaceva il dono palpitante della attesa e mi piaceva dare la prima sferzata, la seconda... Il resto mi annoiava. Lei esigeva, diligente, cure e severità sempre più aspre e presto si convinse di essere l’insostituibile oggetto del mio desiderio. Autoreggenti, alternanza di perizomi neri e culotte bianche, quando la vedevo arrivare a casa in gonna sapevo già quello che avrebbe provocato. Culo nudo, novanta gradi, svettante. Me ne saziavo già solo a guardala. Iniziavo ma sul più bello, al primo rossore o segno, mi fermavo, inventavo una cazzata e lasciavo che si rivestisse, oppure le dicevo: -continua tu- Convinta di tenere il gioco lei si dava a suo modo giudiziosa e docile nel daffare. La obbligai a depilarsi completamente e dovette inventare una scusa in famiglia. Ricordando una vecchia pratica dei bordelli cittadini la costrinsi ad orinare sul mio cazzo moscio. Io, nel suo bagno seduto sul bidè e lei china a gambe aperte resistente, imprecante muta: uhm uhmm, ed io: dai, forza, pss. psss. sino allo zampillare diretto al mio piacere tenendola per i fianchi. - Ora sei la mia puttana - le ricordai mentre rannicchiata sul pavimento avvolta nell’accappatoio succhiò al meglio senza altro condimento che la sua acqua. Arrivai a pretendere che si praticasse un clistere prima di ogni nostro incontro minacciando controlli. Va da se che non li feci mai, tuttavia lei una volta mi avvertì di non avere adempito al suo obbligo e cercò di spiegarmi che il bagno era occupato e non so che storia del marito, del figlio e della doccia e la colf che aveva ingaggiato per la casa. E allora io prima di incularla volli che mi incappucciasse il cazzo come faceva col consorte. Non con uno ma due preservativi. Lei mi pregò di no. Avrebbe preferito essere battuta con la spazzola dei capelli, o qualche colpo di canna che però non c’era, implorò la cinghia e cercò anche di stendersi sulle mie ginocchia per un lavoro severo di mani, di ciabatte o altro, perché lui, suo marito, teneva il conto dei preservativi che custodiva del cassetto del comodino. Ogni tre giorni li contava. Suo figlio sarebbe potuto essere accusato della mancanza, come anche la collaboratrice domestica o addirittura il cane ghiotto di chewing gum. Non ci fu verso che l’ascoltassi. La forzai all’ubbidienza dicendole che in seguito, ricomprandoli, avrebbe potuto rimpiazzare i preservativi per la conta. A malincuore mi coprì e se lo prese nell’ano crudo con i due ritardanti e un breve strillo nel tentativo fallito di mantenersi chiusa. Mentre stantuffavo confessò, di non essere mai entrata in farmacia a comprare profilattici e tanto meno macchinato al distributore. Le dissi che se non nell’occasione immediata, una volta o l’altra l’avrebbe fatto in mia presenza e lei, piagnucolò: - no no- e se ne venne come al solito per i fatti suoi. Davvero fu un dar potere alla fantasia, un mettere ordine nelle orge domestiche e cercare il limite dell’impossibile sino al punto di…

Una sera l’attendevo come al solito all’uscita della piscina comunale. Avevo visto la sua macchina posteggiata un po’ lontana dall’entrata, in una zona poco illuminata del viale e mi ero accostato lungo il marciapiede opposto. Dopo un po’ la vidi uscire accompagnata da un giovanotto in tuta. Camminavano senza fretta, lei sorridente ascoltava lui che parlava cordiale. I due si fermarono all’automobile di lei. Lui sembrò concludere la discussione e attendere qualcosa. Lei rispose mentre cercava qualcosa nella borsetta. Sicuramente si era accorta della mia presenza. Nel salutarla lui le toccò il fianco indugiando col palmo della mano un po’ più su della sua natica sinistra. Lei gli sfiorò la spalla. Mentre il giovanotto si allontanava e spariva all’interno dell’edificio comunale, lei trovò le chiavi, aprì la macchina, posò sacca, rallentando i tempi, richiuse lo sportello e si diresse verso di me. Lasciai che fosse lei a parlare.
- è il mio istruttore
- l’ho capito
- mi diceva che cambieranno gli orari
- vedo che siete molto in sintonia
- no, è che ci sono stati dei discorsi all’interno della direzione vorrebbero che lui…
- senti ho capito che se ancora non te lo sei fatto ci vuole poco…
- non dire cazzate… la devi smettere… !
- perché se no che fai?
Rimase muta. La guardai negli occhi. Lei li abbassò. Accesi la luce dello specchietto retrovisore e prendendola per il mento la costrinsi a guardarmi. Svincolandosi disse:
-sei tu che sai sempre cosa fare e quello che … devi fare… o puoi… senti, non c’è stato niente ma se proprio lo vuoi sapere ieri mi sono masturbata e ho pensato a lui…
Stavo per mollarle uno schiaffo. Lei, anticipandomi, si parò la faccia con il braccio e lamentò:
- non qui – lasciò che le scoprissi gli occhi, la bocca. Per un attimo al passaggio della mia mano sul viso fece come per succhiarmi indice e medio. Non la assecondai. Restammo in silenzio, respirava male, dopo qualche secondo riprese a parlare: Ieri sera mio marito… è entrato e mi ha vista mentre lo facevo. È successo altre volte, non lo sopporta, ma ieri sera è stato più… guarda - si abbasso i pantaloni malamente a mezza coscia e mostrò un livido vicino all’inguine. Continuò: - deve sospettare qualcosa ed ho pure l’impressione che mi faccia spiare dalla cameriera. Si fa riferire tutto quello che faccio…- stavo per accarezzarle l’interno delle cosce e veloce si risistemò i pantaloni. – ti prego. Ho paura… oggi Gianni, l’istruttore, mi ha vista all’acquagym e gli ho dovuto inventare che sono scivolata nelle docce e lui si è preoccupato e voleva chiamare il medico per capire se mi ero fatta male, anche eventualmente per l’assicurazione e ho dovuto minimizzare e lui mi ha seguita fuori per accertarsi che stessi bene… è una persona corretta… tu sei libero di non credermi e potrai anche punirmi per quello che pensi abbia fatto, ma devi credermi … -
- e allora che c’entra con la sgrillettata …?-
- succede… quando sono stanca, scompagnata e ho un lavoro da fare… lo faccio, ma sai… considera che ho pensato pure a te, sai… e c’era pure Baron in divisa, l’amica Rossi in tanga, le zinne all’aria della colf e il professore Bernasconi con pretese inaspettate… non c’era solo Gianni… e mi capita di accogliere in fantasie anche persone che non conosco e persino mio marito… che poi me lo sono trovato davanti vero e senza preavviso. Mi sono girata da una parte, ho chiuso le gambe ma è stato inutile… si è incazzato lo stesso ed ha le mani pesanti.
Si era avvicinata e con le punte delle dita in modo impercettibile giocava sulla stoffa, con una leggera pressione arabescava sulla patta. Continuò: – e non ti ho detto ancora, quello che mi fa stare più male, nervosa. Dopo i colpi e mentre ancora ansimavo per il dolore, mi ha scopata. E’ andato senza precauzioni, non li ha cercati, nemmeno ha aperto il cassetto, è venuto dentro, l’ha fatto apposta e temo, come niente, di rimanere incinta -
Sentii un vuoto nello stomaco. Era vicinissima, la testa china sulla mia spalla, parlava e sentivo il suo fiato sulla guancia, mi sfiorò il collo con le labbra.
- Non sarebbe la prima volta… tra una settimana saprò, tra l’altro lui è partito, sono sola¬. Tempo fa lo fece pure, come ieri. Una discussione e alla fine realizzò. Di solito usciva e se ne veniva sulla mia pancia, sulle tette, imbrattava la qualunque e invece, quella volta, si sfogò dentro. Mi disse che non aveva fatto in tempo. Mi sono sposata che aspettavo. Un paio di materie all’università le presi grazie al pancione e forse anche la lode.
- Potrai prenderti una bella vacanza per maternità in ufficio –
- non dirlo neanche per scherzo! Piuttosto, male che vada, sgombero. Ieri l’ha fatto apposta con cattiveria perché lui, sa bene che senza i cappucci sene viene subito! si scola addosso, di sicuro mi scola dentro. Da confidenza alla tipa delle pulizie e ci manca poco che… - con le dita picchettava distratta sul mio ginocchio.
-Senti, andiamo da un’altra parte, c’è troppa luce -
Ci spostammo con la macchina di un paio di isolati. C’era ancora chiarore sufficiente per la sua siluette. Non distinguevo l’espressione del suo viso. Nemmeno lei la mia. Buttai là: -Mi piacerebbe guardarti mentre ti masturbi e darti il resto…-
Ci fu silenzio. Temetti di essere andato fuori pista. Dopo qualche secondo rispose:
- Qui , ora, no, sarebbe un’altra cosa… la prossima volta, a casa… -
Lo disse decisa, girandosi. Mise le mani sulle mie ginocchia, si avvicinò col muso ai miei occhi, fece un paio delle sue smorfie a scherzo e giudiziosa: – ma… ora ti meno io – allargò, sfibbiò e sbottonò il pacco. Non era in forma. – si, ne ha proprio bisogno - tirò fuori da una tasca una boccetta di plastica, munse del gel trasparente, ne unse bene le mani e incominciò a accarezzare a tutto palmo. Sentii una frescura rigenerante. - Che cos’è?- chiesi – fresco vero? Punge? igienizzante mani, lo uso in ufficio, nei bagni e dopo la piscina - l’assente si tese presto in misura. – e fa anche un buono odore- così dicendo impugnò il pestello e prese a masturbarmi slabbrando con la giusta pressione e scappellando a dovere. Cercai il suo petto. Si fermò, scostò la maglia sganciò il reggiseno, riprese con i capezzoli che le si inturgidivano nelle mie mani pizzicati tra indice e pollice, rollati e bene stretti. Lei avvicinò la testa, fece la finta di due colpi di lingua alla cappella il terzo lo diede buono e si strinse tutto il pupo al petto. Si girò e senza guardarmi: - però se te ne devi venire lo voglio in bocca-
- e però devi prenderlo tutto ed ingoiare senza sciroppo però-
- tranquillo, sei stato un buon istruttore, però –
Affondò a ventosa.




Pochi giorni dopo un pomeriggio ci vedemmo casa sua. Presi l’ascensore di servizio. Bussai, la porta era socchiusa, dall’altro lato sentii la sua voce che mi invitava dentro. Entrai. Era vestita di un abito rosa intero sbracciato dall’ampia gonna appena sopra il ginocchio. Mi baciò veloce e mi portò tenendomi per mano in cucina. C’era un piccolo computer portabile sulla credenza. Sul tavolo un tubero bitorzoluto di colore ocra. -Guarda- disse spostandosi dallo schermo e invitandomi a leggere una pagina della quale aveva digitato veloce l’indirizzo. Lessi: “Il figging prende spunto da una molto comune pratica in campo ippico dove un tempo si usava inserire un tocchetto di zenzero nell’ano del cavallo per indurlo a muoversi velocemente e provare così la giovinezza del cavallo”
La guardai e lei annuì furbetta, continuai a leggere:
“una pratica molto comune che ha conquistato tutti gli amanti del sesso trasgressivo che, armati della radice, amano stimolare il partner nello stesso identico modo”
Con una tono saccente mi disse di continuare a leggere ad alta voce. La accontentai. Impostai la voce tutor:
“ Prima di usare lo zenzero è necessario sbucciare la radice e lasciare scoperta la parte più morbida e succosa, questa dovrà poi essere affilata e tagliata accuratamente lasciando che il frutto sia appuntito e assottigliato. I partner potranno ora usare la radice: uno dei due sceglierà se inserirla nell’ano o nella vagina; entrambe le stimolazioni producono nella zona anale e vaginale una forte sensazione di bruciore e dolore che eccita entrambi i partner.” Mentre leggevo lei accanto si strusciava a sollecitando l’inizio di qualcosa di cui non prevedevo la fine. Le misi una mano sotto la gonna. Non aveva calze. Le accarezzai le gambe risalendo sino a raggiungere il suo culo. Era senza mutande. Sinuosa favorì l’esplorazione della fica e la testai con l’indice e il pollice nell’ano. Era asciutto. Rinculò facendo in modo che le dita andassero in profondità. – sono come vuoi tu, pulitissima – sussurrò orgogliosa. In effetti era netta dentro e senza i soliti unguenti. E ancora sino alla fine:
“la radice dello zenzero può essere sbucciata e passata sulla vagina per regalare sensazioni forti e brividi anche sulle labbra e sul clitoride. Il senso di bruciore può essere affievolito con dell’acqua fredda, il fiato dell’altro partner o un po’ di ghiaccio.” La pagina web conclusa. Gettai un’occhiata al tubero solitario sul tavolo e guardai lei compiaciuto. -Si può fare- dissi - ma i patti erano altri, non te ne puoi uscire col suppostone esotico. Voglio vedere come sgrilletti – le dissi dandole una pacca d’approvazione sul sedere. Lei stemperò un po’ l’entusiasmo. – Non di là però, qui in cucina – l’idea non mi andava. Nel letto saremmo stati più comodi. Di solito i luoghi deputati a tali circostanze sono docce, divani e i ripiani di lavatrici e lavastoviglie funzionanti. Nulla di tutto ciò era presente nella sua cucina. Solo il tavolo centrale e tre sedie oltre la dispensa e i fornelli. Mi indicò il tavolo. Io avrei sbucciato e modellato la radice mentre lei a gambe aperte sul tavolo si sarebbe data soddisfazione. Non mi piaceva. Le dissi che doveva inginocchiarsi su una sedia sporgere bene il culo e darsi mano sino all’arrivo stravagante. In questo modo non sarebbe stata distratta dal mio preliminare da boy scout col coltello e avrebbe introiettato a sorpresa il plug vegetariano. Fece un paio di prove sulla sedia, l’equilibrio risultò instabile. Le dissi di andare a letto in tutta comodità ma non ci fu modo di convincerla. La minacciai con un cucchiaio di legno ma mi disse che il gioco del giorno sarebbe stato un altro. Ritornammo al tavolo. Decise di mettersi a quattro gambe sul tavolo culo alzato e schiena bene arcuata, fica e culo in vista verticale, le sue dita impertinenti, insistenti ed io dietro avrei mondato lo zenzero e una volta modellato alle sue prime scosse l’avrei tappata ad arte.
– fica o culo? –
-Culo - rispose, puledrina di razza, decisa. Mi venne il dubbio che avesse già fatto qualche prova solitaria perché non solo era eccitata ma anche tradiva una certa sicurezza e certezza della riuscita e dell’effetto finale godereccio. Andò alla dispensa prese una ciotola, passò al frigorifero e tirò fuori una manciata di cubetti di ghiaccio. Mise la ciotola con i cubetti sul tavolo. – per ogni eventualità – mi sembrò che iniziasse a strusciarsi a sfiorarsi ad andare incontro all’ondeggiare della gonna, mi sembrò con le natiche già sul tavolo, sfrontata a gambe larghe, le mani salde sul ripiano pronte ad assecondare la torsione del busto a portarsi sopra, quando il campanello della porta suonò.
 
questa storia l'ho scritta in estate ricordando due situazioni vissute. la proptagonista è la stessa delle prime due parti pubblicate precedentemente. grazie
 
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