9.4
Le acque del lago si riversavano sulla riva nel loro moto perpetuo, senza nulla che potesse mai interrompere quello sciabordio delle onde che si inseguivano una dopo l'altra, a rotolarsi sulla terra bagnata come splendidi amanti.
Più mi fermavo a contemplare il paesaggio, più mi sembrava di vedere le sagome di quei due ragazzini incerti del futuro, delle loro vite, con i loro problemi, che si lasciavano andare in un posto quasi magico, a giocare immersi in un piccolo squarcio di verde poco lontano dalle spire asfissianti del paese.
Eccolo, il piccolo ed inquietante Remo, che simulava gioia quando nel cuore aveva solo rabbia, e si lanciava da quell'altalena seguito dall'angelico Giacomo che nascondeva le sue preoccupazioni dietro un sorriso abbagliante.
Ne era passato di tempo da allora.
La tempesta che avevo nella mente fu interrotta dal chiacchiericcio di Simona che parlava amabilmente con Lucrezia. Mi voltai a guardarle proprio nel momento in cui la mora rise di gusto ad una battuta, e mi dannai l'anima per essere stato tanto sciocco in passato. Giacomo ai tempi aveva capito tutto, ecco perché Simona non aveva faticato molto ad accettare la presenza dell'altra donna. Noi tre, al lago, eravamo tutti vittime, chi in un modo, chi in un altro. Ed io non avevo scusanti per non averlo compreso.
Strinsi i denti con estremo nervosismo: l'odio è un sentimento che logora, e la mia punzione era quella di averlo assaggiato inutilmente verso una persona che andava solo salvata.
Sospirai e mi ritrovai a fissarle, bellissime entrambe.
Simona aveva costantemente i capelli sciolti, con quei boccoli d'oro che le incorniciavano un viso quasi perfetto. Persino quando era Giacomo non aveva mai avuto i lineamenti mascolini, perciò a vederla così sembrava fosse stata donna da sempre. Aveva le mani estremamente curate ed indossava un vestitino leggermente trasparente che le cadeva fino a mezza coscia, con una vistosa scollatura sul petto dove s'intravedeva il costume nero.
Lucrezia invece non la smetteva di sorprendermi.
Non le serviva chissà quale vestito per essere al centro dell'attenzione. E difatti, nonostante avesse un paio di shorts semplicissimi, una T-shirt bianca e delle infradito ai piedi, io non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. Eppure, la seradella rimpatriata non aveva fatto nulla per smentire l'idea che mi ero fatto di lei: una donna frivola, in cerca di attenzioni, che vuole soltanto apparire per dimostrare chissà cosa. Mi aveva dato dimostrazione più di una volta, in quei giorni, di non essere così, e quella era l'ennesima conferma. Non ebbi più dubbi, ormai: Francesco le diceva pure come vestirsi, quando indossare un abito invece di un altro, quando truccarsi e quando essere appariscente.
Mi maledii per non avergli sferrato un pugno in più.
Lei era stupenda anche con quelle ciabatte da due euro.
In più, aveva quello sguardo magnetico, che trascendeva l'umana comprensione. Ed era incredibile perché quel giorno indossava un paio di occhiali da sole a specchio, eppure mi sembrava di vederle, quelle iridi, bucare la parete oscura che altrimenti avrebbe dovuto ottenebrarle la vista. Non c'erano filtri, per lei: mi guardava l'anima, me la attorcigliava con una semplice occhiata, in un modo impossibile da descrivere.
Si avvicinarono a passo svelto e sentii l'ultimo stralcio di conversazione.
-...era magro come un chiodo e guardalo ora!- mi indicava Simona.
Lucrezia si voltò a guardarmi e sorrise. Avevo una canottiera, un paio di bermuda, ed ero già scalzo da un bel pezzo. Addosso, tra i muscoli guizzanti, avevo ancora svariati segni delle percosse subite, sebbene in via di remissione.
-Beh, anche tu sei cambiata tanto!- le rispose Lucrezia in un mezzo sorriso, dopo avermi rifilato uno sguardo da sotto gli occhiali che non riuscii a decifrare.
Simona rise. -Com'è che si dice? "Sei un'altra persona." Beh, nel mio caso è vero.-
Non so dire il perché, ma in quel momento ero terribilmente in imbarazzo. Sentivo il viso che andava a fuoco, e come un gesto di autodifesa mi rabbuiai, mettendo quasi il broncio. Ero un orso, e non facevo altro che fissare le acque del lago per contemplare le immagini di un tempo che non c'era più.
Per una serie vastissima di motivi non avevo assolutamente voglia di bagnarmi, per questo rifiutai l'invito di Simona, che in tutta risposta scrollò le spalle e si diresse a passo svelto verso le acque. Mi sorpresi nel vederla per nulla imbarazzata di fronte a noi: tolse il vestitino e rimase in costume, a dare sfoggio del suo corpo ben fatto, con le curve al punto giusto. Un attimo dopo si immerse nei flutti, e la vedevamo da lontano salutarci con la mano mentre nuotava e si divertiva, scrollandosi di dosso tutte le sue preoccupazioni.
Tra me e Lucrezia, invece, non volava una mosca. Me ne stavo appoggiato alla pianta che mi aveva visto crescere, in piedi coccolato nella sua corteccia. La sentivo muoversi poco lontano, probabilmente si stava posizionando a terra sul suo asciugamano, ma non volevo voltarmi a guardarla perché sapevo che sarebbe stato peggiore di qualsiasi altro pugno in faccia. Aveva un forte ascendente su di me, per quanto io non volessi ammetterlo, ed ero anche consapevole del fatto che lei fosse al corrente della questione.
Non so dire quanto tempo passò prima di sentire la sua voce.
-Era qui che venivate sempre?- mi disse ad una certa, spaccando a metà il silenzio con la sua voce che sembrava una scure.
Mi voltai e la vidi distesa a terra, il busto sorretto dai gomiti, il volto puntato su di me, con il costume a due pezzi che le ricopriva le parti intime. Ed eccolo lì, quel pugno sul mio mento: aveva la pelle ambrata, vagamente imperlata di sudore, che brillava alla luce diurna a risaltare le sue curve. Le gambe distese erano ben tornite, toniche, lisce come il petalo di un fiore, e terminavano con piedi che rasentavano la perfezione, dallo smalto stavolta blu come il mare.
Cercai di non posarle i miei occhi addosso, ma lo feci ugualmente per qualche secondo, e sono convinto lei se ne accorse. Non disse nulla, rimase a fissarmi con un debole sorriso ad incresparle le labbra, ed attendeva una risposta da parte mia che faticava ad arrivare.
Annuii semplicemente, prima di avvicinarmi a lei a passo lento. Mi misi seduto di fianco a quella donna e la emulai, rimanendo in bilico sui miei gomiti. Fissavo l'orizzonte, un punto imprecisato, e vedevo la sagoma di Simona nuotare e giocare tra le onde del lago.
Non era cambiato nulla da allora, se non la mia presenza sul prato invece che nell'acqua.
-C'era un'altalena, una volta. Ci lanciavamo spesso da lì.- indicai un ramo sporgente, il nostro vecchio parco giochi.
Non c'era più, quell'altalena, e compresi all'istante di quanto fosse un pò come la nostra vita. Oscilla in un verso, poi in un altro, poi alla fine ti butti e ricominci tutto da capo, fin quando qualcuno non taglia la corda e ti ritrovi con un nulla di fatto, ad esserti divertito per un pò, in una breve finestra tra rabbie, preoccupazioni e dolori.
Cos'era, per me, la gioia? Un lasso di tempo infinitesimale, come l'ora d'aria dei carcerati. E quando mi avevano sbattuto in faccia l'età adulta, avevo quasi dimenticato di come si fa per essere realmente felici.
Forse perché, in fin dei conti, non lo ero mai stato.
Sospirai socchiudendo gli occhi, un tentativo di proteggermi da quel sole accecante.
-Venivamo ogni giorno dopo scuola. Cercavamo di dimenticare qui.- glielo sputai addosso e non so nemmeno il perché. Non volevo farle male, ma fu qualcosa di spontaneo, di inatteso, e mi pentii subito dopo di averlo detto.
Lei mi sorprese rispondendomi in un attimo, e quelle sue parole furono come una stilettata tra le costole.
-Avrei voluto dimenticare ogni giorno anche io.-
Mi voltai a guardarla, lei fece lo stesso. Aveva gli occhiali addosso, ma era come vederle gli occhi di smeraldo, quei prati infiniti dove io correvo ogni giorno a piedi scalzi. Non so nemmeno io per quanto tempo rimanemmo a fissarci. Era come se le nostre anime s'intrecciassero, ricucissero a vicenda le loro ferite, e diventassero un tutt'uno in un mondo che ci stava pian piano sputando fuori dalla sua realtà.
Avrei voluto baciarla, assaporare quelle labbra, ma per qualche motivo a me sconosciuto non lo feci.
-Mi dispiace.- farfugliai, e forse lo dissi non solo per scusarmi di ciò che le avevo gettato addosso, ma anche per non essermi buttato definitivamente da quell'altalena.
Tornai a guardare l'orizzonte, lei mi emulò.
Eppure, sentii il tocco inconfondibile della sua mano sulla mia, le sue dita che cercavano la mia carne. La assecondani e rimanemmo così per un bel pezzo.
Volevo perdermi in quel prato con lei, godermi la giornata con Lucrezia e Simona, ma una nube si stagliava da lontano pronta a ricoprire quella palla infuocata nel cielo.
Aveva strane vibrazioni, quella coltre fumosa.
Le vibrazioni del mio dannato, odiato, maledetto cellulare.