Esperienza reale Cambiamenti.

E' la prima volta che leggo un racconto dove magari si, c'è erotismo, ma c'è ben altro. Molto più profondo, incisivo e che cattura. D'un fiato.
Non deve essere stato facile questo percorso di vita. Anzi, dannazione, maledettamente difficile. Affrontare i propri fantasmi non è semplice, ma conoscerli e cercare di superarli non è affatto da tutti. Per come sono fatto io, spero che poi tu abbia preso la decisione di riaffrontare francesco, suonandolo come una zampogna. Ma, se leggo tra le righe, non credo sia accaduto. Ma maledizione, complimenti davvero anche per lo stile e per la capacità analitica che hai di leggere dentro. Ad iniziare da te stesso. E di chi ti sta vicino. Si, avrai sbagliato a leggere, ma chi non sbaglia? Tu, come minimo, ci provi
 
9.2

Quella era la donna più bella che io avessi mai visto in tutta la mia vita.

Dopo quella mia strana confessione, le cose con Lucrezia ripresero il normale ritmo. Sembrava quasi facessimo finta di niente, ma era palese quanto entrambi cercavamo di stare più vicini possibile in ogni occasione. Le nostre mani si sfioravano così come i nostri sguardi, e in un modo che non riuscivo a comprendere pure le nostre anime si toccavano e si fondevano ogni istante di più, senza rendercene conto.
Lei mi sorrideva, ed ogni volta le sue gote si coloravano di rosa, mentre il mio cuore avvampava di un fuoco imperituro.

Il giorno dell'arrivo di Giacomo ero in totale fermento. Avete presente i ragazzini che attendono con ansia il camioncino dei gelati? Io mi incollavo alla finestra con lo stesso desiderio, quello di vedere il taxi che avrebbe portato il mio amico nel vialetto.
Erano passati venti anni, due lunghi decenni, e avevo sognato quel momento da un sacco di tempo.
Non riuscivo ancora a togliermi dalla testa il fatto che fosse stata tutta colpa mia quel lungo silenzio tra noi, e non sapevo nemmeno come avesse fatto Giacomo a perdonarmi.
Già, perché doveva avermi perdonato per aver accettato il mio invito, giusto?
Sospiravo in preda a tremendi pensieri, e più rimuginavo più non riuscivo a scrollarmi di dosso quella sgradevole sensazione, quel senso di colpa, quella vocina che continuava a ripetermi "l'hai provocato tu, questo casino."
Lucrezia si era accorta della mia difficoltà nel gestire la situazione. Durante una delle mie tante peregrinazioni alla finestra, lei mi si avvicinò silenziosamente e mi afferrò la mano, intrecciando le sue dita con le mie.
Non ci voltammo nemmeno ad osservarci, non ce n'era bisogno. La vedevo sorridere pur senza guardarla, e mi sembrava quasi di sentire i battiti del suo cuore direttamente dal palmo della sua mano.

Passarono ore prima che i miei occhi chiari riuscissero a scorgere l'autovettura bianca fuori dal cancelletto della mia abitazione. La macchina arrestò il suo incedere, vedevo due persone all'interno parlottare tra loro prima che il tassista scendesse per recuperare la valigia nel portabagagli.
L'uomo, sulla sessantina, si diresse poi allo sportello del passeggero, e lo aprì senza indugio lasciando che l'altra persona potesse scendere dalla macchina.
Nel vedere la scena il cuore si fermò di colpo. Persi qualche anno di vita, probabilmente, tanta era la sorpresa.
Guardai Lucrezia, tornai a guardare dalla finestra, poi mi voltai di nuovo verso la donna che avevo di fianco, per incrociare il suo sguardo perplesso quasi quanto il mio.
-ma che cazzo...- bofonchiai dirigendomi a passo svelto verso il portone di casa.
Spalancai l'uscio, il mio sguardo guizzò sul vialetto mentre il taxi ripartiva. Ora, l'unico rumore che riuscivo a percepire, era quello delle rotelle della valigia sull'acciottolato, che veniva sballottata a destra e a sinistra ad ogni pietruzza sul suo cammino.
Ecco, la mia essenza era proprio come quel bagaglio: giocava a fare l'equilibrista sul bordo di un dirupo, e sarebbe caduta di sicuro da un momento all'altro senza la mia forza di volontà a guidarla sulla retta via.
Mi presentai sull'uscio con la canottiera ed un paio di pantaloncini corti, i capelli sciolti, la barba incolta e qualche segno di percosse ancora non del tutto scomparso. La vitalità dei miei occhi si scontrò con l'assurda scena che avevo di fronte: a trainare la valigia non c'era Giacomo come avevo sperato.
La persona che avevo messo a fuoco era una donna, che un attimo dopo alzò lo sguardo e mi fissò da lontano, rimanendo a sua volta sorpresa nel vedermi.
Arrestò il suo incedere, e lo fece in un modo strano, guardandosi intorno per un istante, come se pure lei si stesse chiedendo "ma è questo il posto giusto?".
Feci un paio di passi in avanti, senza staccarle lo sguardo di dosso.
Aveva un viso angelico, circondato da lunghi boccoli d'oro, e due occhi talmente azzurri da ricordare quelli di un serafino. Mi guardava dal basso all'alto, sentivo le sue occhiate indagatorie sul mio corpo, e passava in rassegna ogni singolo dettaglio di me, mentre io facevo lo stesso con lei. Aveva le labbra serrate, carnose, pittate di un rosso acceso, carico di passione. I colori nordici non mi sono mai piaciuti, ma dovetti ammettere a me stesso che quella era la donna più bella che io avessi mai visto in vita mia.
-Posso...- balbettai. -Chi è lei?- chiesi infine mentre mi stavo avvicinando con la mano distesa verso la sua valigia. C'era chiaramente un errore, un'incomprensione, un...
-Remo?- fece lei alzando lo sguardo per incontrare i miei occhi.
La sua bocca si deformò in un debole sorriso...e per me fu come un lampo a ciel sereno.
Riconobbi il suo modo di guardarmi, riconobbi il suo modo di sorridermi, riconobbi quasi il suo odore nonostante fosse mascherato da un forte profumo di rosa.
Sgranai gli occhi mentre divoravo quella donna, non con malizia, ma con malcelata curiosità di capirne di più di lei, nonostante ormai fosse tutto così chiaro nella mia mente.
Quella donna di cui non conoscevo il nome era il fu Giacomo.
Ci guardammo per istanti infiniti prima che lei mollasse la presa sul manico della sua valigia. Il fragore del bagaglio al suolo coincise con i nostri corpi che si scontrarono all'unisono, uno rivolto all'altro, mentre i nostri volti si sporcavano di lacrime.
Quel giorno pioveva solo dai miei occhi.
Il calore di quell'abbraccio non lo dimenticherò mai: mi saltò addosso aggrappandosi alla mia schiena con le unghie, con le mani, con la sua anima. Sentivo la sua guancia premene contro la mia, rigata da lacrime infinite che le stavano rovinando tutto il trucco. E la sentivo ridere, e piangere, e ridere ancora, mentre tentava di balbettare qualche parola che alla fine riuscii a comprendere.
-Mi sei mancato, tanto.- persino la sua voce era cambiata.
Tutto era diverso, in lei, sebbene tutto mi ricordasse così tanto il mio amico.
Compresi che ora Giacomo viveva in quella donna. Lei era tutto quello che aveva sempre voluto essere.
E sebbene fosse completamente diverso, non era cambiato di una virgola nei suoi modi di fare.
Quell'abbraccio mi ricordò quel giorno di pioggia, nel porticato sotto casa sua, quando finì di colpo la mia adolescenza.
QUell'abbraccio era un amico perso, un'amica trovata, un modo di far incontrare i nostri Cambiamenti.
In quel momento promisi a me stesso che non sarei più fuggito, mai più, in nessun modo.
Non da Francesco, non dai miei sentimenti per Lucrezia, non da Giacomo, nemmeno da quella donna che vedevo per la primavolta, ma che mi sembrava di conoscere da sempre.
 
È il mio primo commento in assoluto sul forum, ma dovevo assolutamente farti i complimenti. Ti leggo da un pò e cazzo se sei bravo, ci si immedesima, non respiro talmente sono preso dalla lettura. Mi sento un imbecille, ma quando ho letto quest'ultimo capitolo mi è scesa la lacrima davvero. Sei un grande, dovresti veramente sfruttare questo tuo "dono" nello scrivere, sei troppo bravo! Grazie per questo racconto, ti prego non ti fermare! @rancu
 
9.2

Quella era la donna più bella che io avessi mai visto in tutta la mia vita.

Dopo quella mia strana confessione, le cose con Lucrezia ripresero il normale ritmo. Sembrava quasi facessimo finta di niente, ma era palese quanto entrambi cercavamo di stare più vicini possibile in ogni occasione. Le nostre mani si sfioravano così come i nostri sguardi, e in un modo che non riuscivo a comprendere pure le nostre anime si toccavano e si fondevano ogni istante di più, senza rendercene conto.
Lei mi sorrideva, ed ogni volta le sue gote si coloravano di rosa, mentre il mio cuore avvampava di un fuoco imperituro.

Il giorno dell'arrivo di Giacomo ero in totale fermento. Avete presente i ragazzini che attendono con ansia il camioncino dei gelati? Io mi incollavo alla finestra con lo stesso desiderio, quello di vedere il taxi che avrebbe portato il mio amico nel vialetto.
Erano passati venti anni, due lunghi decenni, e avevo sognato quel momento da un sacco di tempo.
Non riuscivo ancora a togliermi dalla testa il fatto che fosse stata tutta colpa mia quel lungo silenzio tra noi, e non sapevo nemmeno come avesse fatto Giacomo a perdonarmi.
Già, perché doveva avermi perdonato per aver accettato il mio invito, giusto?
Sospiravo in preda a tremendi pensieri, e più rimuginavo più non riuscivo a scrollarmi di dosso quella sgradevole sensazione, quel senso di colpa, quella vocina che continuava a ripetermi "l'hai provocato tu, questo casino."
Lucrezia si era accorta della mia difficoltà nel gestire la situazione. Durante una delle mie tante peregrinazioni alla finestra, lei mi si avvicinò silenziosamente e mi afferrò la mano, intrecciando le sue dita con le mie.
Non ci voltammo nemmeno ad osservarci, non ce n'era bisogno. La vedevo sorridere pur senza guardarla, e mi sembrava quasi di sentire i battiti del suo cuore direttamente dal palmo della sua mano.

Passarono ore prima che i miei occhi chiari riuscissero a scorgere l'autovettura bianca fuori dal cancelletto della mia abitazione. La macchina arrestò il suo incedere, vedevo due persone all'interno parlottare tra loro prima che il tassista scendesse per recuperare la valigia nel portabagagli.
L'uomo, sulla sessantina, si diresse poi allo sportello del passeggero, e lo aprì senza indugio lasciando che l'altra persona potesse scendere dalla macchina.
Nel vedere la scena il cuore si fermò di colpo. Persi qualche anno di vita, probabilmente, tanta era la sorpresa.
Guardai Lucrezia, tornai a guardare dalla finestra, poi mi voltai di nuovo verso la donna che avevo di fianco, per incrociare il suo sguardo perplesso quasi quanto il mio.
-ma che cazzo...- bofonchiai dirigendomi a passo svelto verso il portone di casa.
Spalancai l'uscio, il mio sguardo guizzò sul vialetto mentre il taxi ripartiva. Ora, l'unico rumore che riuscivo a percepire, era quello delle rotelle della valigia sull'acciottolato, che veniva sballottata a destra e a sinistra ad ogni pietruzza sul suo cammino.
Ecco, la mia essenza era proprio come quel bagaglio: giocava a fare l'equilibrista sul bordo di un dirupo, e sarebbe caduta di sicuro da un momento all'altro senza la mia forza di volontà a guidarla sulla retta via.
Mi presentai sull'uscio con la canottiera ed un paio di pantaloncini corti, i capelli sciolti, la barba incolta e qualche segno di percosse ancora non del tutto scomparso. La vitalità dei miei occhi si scontrò con l'assurda scena che avevo di fronte: a trainare la valigia non c'era Giacomo come avevo sperato.
La persona che avevo messo a fuoco era una donna, che un attimo dopo alzò lo sguardo e mi fissò da lontano, rimanendo a sua volta sorpresa nel vedermi.
Arrestò il suo incedere, e lo fece in un modo strano, guardandosi intorno per un istante, come se pure lei si stesse chiedendo "ma è questo il posto giusto?".
Feci un paio di passi in avanti, senza staccarle lo sguardo di dosso.
Aveva un viso angelico, circondato da lunghi boccoli d'oro, e due occhi talmente azzurri da ricordare quelli di un serafino. Mi guardava dal basso all'alto, sentivo le sue occhiate indagatorie sul mio corpo, e passava in rassegna ogni singolo dettaglio di me, mentre io facevo lo stesso con lei. Aveva le labbra serrate, carnose, pittate di un rosso acceso, carico di passione. I colori nordici non mi sono mai piaciuti, ma dovetti ammettere a me stesso che quella era la donna più bella che io avessi mai visto in vita mia.
-Posso...- balbettai. -Chi è lei?- chiesi infine mentre mi stavo avvicinando con la mano distesa verso la sua valigia. C'era chiaramente un errore, un'incomprensione, un...
-Remo?- fece lei alzando lo sguardo per incontrare i miei occhi.
La sua bocca si deformò in un debole sorriso...e per me fu come un lampo a ciel sereno.
Riconobbi il suo modo di guardarmi, riconobbi il suo modo di sorridermi, riconobbi quasi il suo odore nonostante fosse mascherato da un forte profumo di rosa.
Sgranai gli occhi mentre divoravo quella donna, non con malizia, ma con malcelata curiosità di capirne di più di lei, nonostante ormai fosse tutto così chiaro nella mia mente.
Quella donna di cui non conoscevo il nome era il fu Giacomo.
Ci guardammo per istanti infiniti prima che lei mollasse la presa sul manico della sua valigia. Il fragore del bagaglio al suolo coincise con i nostri corpi che si scontrarono all'unisono, uno rivolto all'altro, mentre i nostri volti si sporcavano di lacrime.
Quel giorno pioveva solo dai miei occhi.
Il calore di quell'abbraccio non lo dimenticherò mai: mi saltò addosso aggrappandosi alla mia schiena con le unghie, con le mani, con la sua anima. Sentivo la sua guancia premene contro la mia, rigata da lacrime infinite che le stavano rovinando tutto il trucco. E la sentivo ridere, e piangere, e ridere ancora, mentre tentava di balbettare qualche parola che alla fine riuscii a comprendere.
-Mi sei mancato, tanto.- persino la sua voce era cambiata.
Tutto era diverso, in lei, sebbene tutto mi ricordasse così tanto il mio amico.
Compresi che ora Giacomo viveva in quella donna. Lei era tutto quello che aveva sempre voluto essere.
E sebbene fosse completamente diverso, non era cambiato di una virgola nei suoi modi di fare.
Quell'abbraccio mi ricordò quel giorno di pioggia, nel porticato sotto casa sua, quando finì di colpo la mia adolescenza.
QUell'abbraccio era un amico perso, un'amica trovata, un modo di far incontrare i nostri Cambiamenti.
In quel momento promisi a me stesso che non sarei più fuggito, mai più, in nessun modo.
Non da Francesco, non dai miei sentimenti per Lucrezia, non da Giacomo, nemmeno da quella donna che vedevo per la primavolta, ma che mi sembrava di conoscere da sempre.
Che racconto stupendo!
 
Sappi Rancu che ho vinto un caffè, avevo scommesso con me stesso che c'era qualcosa di netto nel cambiamento di Giacomo. Intravedo la possibilità del genere. Ora però torno anche io a respirare.
 
9.2

Quella era la donna più bella che io avessi mai visto in tutta la mia vita.

Dopo quella mia strana confessione, le cose con Lucrezia ripresero il normale ritmo. Sembrava quasi facessimo finta di niente, ma era palese quanto entrambi cercavamo di stare più vicini possibile in ogni occasione. Le nostre mani si sfioravano così come i nostri sguardi, e in un modo che non riuscivo a comprendere pure le nostre anime si toccavano e si fondevano ogni istante di più, senza rendercene conto.
Lei mi sorrideva, ed ogni volta le sue gote si coloravano di rosa, mentre il mio cuore avvampava di un fuoco imperituro.

Il giorno dell'arrivo di Giacomo ero in totale fermento. Avete presente i ragazzini che attendono con ansia il camioncino dei gelati? Io mi incollavo alla finestra con lo stesso desiderio, quello di vedere il taxi che avrebbe portato il mio amico nel vialetto.
Erano passati venti anni, due lunghi decenni, e avevo sognato quel momento da un sacco di tempo.
Non riuscivo ancora a togliermi dalla testa il fatto che fosse stata tutta colpa mia quel lungo silenzio tra noi, e non sapevo nemmeno come avesse fatto Giacomo a perdonarmi.
Già, perché doveva avermi perdonato per aver accettato il mio invito, giusto?
Sospiravo in preda a tremendi pensieri, e più rimuginavo più non riuscivo a scrollarmi di dosso quella sgradevole sensazione, quel senso di colpa, quella vocina che continuava a ripetermi "l'hai provocato tu, questo casino."
Lucrezia si era accorta della mia difficoltà nel gestire la situazione. Durante una delle mie tante peregrinazioni alla finestra, lei mi si avvicinò silenziosamente e mi afferrò la mano, intrecciando le sue dita con le mie.
Non ci voltammo nemmeno ad osservarci, non ce n'era bisogno. La vedevo sorridere pur senza guardarla, e mi sembrava quasi di sentire i battiti del suo cuore direttamente dal palmo della sua mano.

Passarono ore prima che i miei occhi chiari riuscissero a scorgere l'autovettura bianca fuori dal cancelletto della mia abitazione. La macchina arrestò il suo incedere, vedevo due persone all'interno parlottare tra loro prima che il tassista scendesse per recuperare la valigia nel portabagagli.
L'uomo, sulla sessantina, si diresse poi allo sportello del passeggero, e lo aprì senza indugio lasciando che l'altra persona potesse scendere dalla macchina.
Nel vedere la scena il cuore si fermò di colpo. Persi qualche anno di vita, probabilmente, tanta era la sorpresa.
Guardai Lucrezia, tornai a guardare dalla finestra, poi mi voltai di nuovo verso la donna che avevo di fianco, per incrociare il suo sguardo perplesso quasi quanto il mio.
-ma che cazzo...- bofonchiai dirigendomi a passo svelto verso il portone di casa.
Spalancai l'uscio, il mio sguardo guizzò sul vialetto mentre il taxi ripartiva. Ora, l'unico rumore che riuscivo a percepire, era quello delle rotelle della valigia sull'acciottolato, che veniva sballottata a destra e a sinistra ad ogni pietruzza sul suo cammino.
Ecco, la mia essenza era proprio come quel bagaglio: giocava a fare l'equilibrista sul bordo di un dirupo, e sarebbe caduta di sicuro da un momento all'altro senza la mia forza di volontà a guidarla sulla retta via.
Mi presentai sull'uscio con la canottiera ed un paio di pantaloncini corti, i capelli sciolti, la barba incolta e qualche segno di percosse ancora non del tutto scomparso. La vitalità dei miei occhi si scontrò con l'assurda scena che avevo di fronte: a trainare la valigia non c'era Giacomo come avevo sperato.
La persona che avevo messo a fuoco era una donna, che un attimo dopo alzò lo sguardo e mi fissò da lontano, rimanendo a sua volta sorpresa nel vedermi.
Arrestò il suo incedere, e lo fece in un modo strano, guardandosi intorno per un istante, come se pure lei si stesse chiedendo "ma è questo il posto giusto?".
Feci un paio di passi in avanti, senza staccarle lo sguardo di dosso.
Aveva un viso angelico, circondato da lunghi boccoli d'oro, e due occhi talmente azzurri da ricordare quelli di un serafino. Mi guardava dal basso all'alto, sentivo le sue occhiate indagatorie sul mio corpo, e passava in rassegna ogni singolo dettaglio di me, mentre io facevo lo stesso con lei. Aveva le labbra serrate, carnose, pittate di un rosso acceso, carico di passione. I colori nordici non mi sono mai piaciuti, ma dovetti ammettere a me stesso che quella era la donna più bella che io avessi mai visto in vita mia.
-Posso...- balbettai. -Chi è lei?- chiesi infine mentre mi stavo avvicinando con la mano distesa verso la sua valigia. C'era chiaramente un errore, un'incomprensione, un...
-Remo?- fece lei alzando lo sguardo per incontrare i miei occhi.
La sua bocca si deformò in un debole sorriso...e per me fu come un lampo a ciel sereno.
Riconobbi il suo modo di guardarmi, riconobbi il suo modo di sorridermi, riconobbi quasi il suo odore nonostante fosse mascherato da un forte profumo di rosa.
Sgranai gli occhi mentre divoravo quella donna, non con malizia, ma con malcelata curiosità di capirne di più di lei, nonostante ormai fosse tutto così chiaro nella mia mente.
Quella donna di cui non conoscevo il nome era il fu Giacomo.
Ci guardammo per istanti infiniti prima che lei mollasse la presa sul manico della sua valigia. Il fragore del bagaglio al suolo coincise con i nostri corpi che si scontrarono all'unisono, uno rivolto all'altro, mentre i nostri volti si sporcavano di lacrime.
Quel giorno pioveva solo dai miei occhi.
Il calore di quell'abbraccio non lo dimenticherò mai: mi saltò addosso aggrappandosi alla mia schiena con le unghie, con le mani, con la sua anima. Sentivo la sua guancia premene contro la mia, rigata da lacrime infinite che le stavano rovinando tutto il trucco. E la sentivo ridere, e piangere, e ridere ancora, mentre tentava di balbettare qualche parola che alla fine riuscii a comprendere.
-Mi sei mancato, tanto.- persino la sua voce era cambiata.
Tutto era diverso, in lei, sebbene tutto mi ricordasse così tanto il mio amico.
Compresi che ora Giacomo viveva in quella donna. Lei era tutto quello che aveva sempre voluto essere.
E sebbene fosse completamente diverso, non era cambiato di una virgola nei suoi modi di fare.
Quell'abbraccio mi ricordò quel giorno di pioggia, nel porticato sotto casa sua, quando finì di colpo la mia adolescenza.
QUell'abbraccio era un amico perso, un'amica trovata, un modo di far incontrare i nostri Cambiamenti.
In quel momento promisi a me stesso che non sarei più fuggito, mai più, in nessun modo.
Non da Francesco, non dai miei sentimenti per Lucrezia, non da Giacomo, nemmeno da quella donna che vedevo per la primavolta, ma che mi sembrava di conoscere da sempre.
Attendo la continuazione.
 
hai uno stile fantastico... sono ancora indietro nella lettura di tutti i capitoli ma tutte le volte che ho cinque minuti ne leggo un po'...

grazie a te
 
Non so come ringraziarvi per le belle parole e per il tempo che spendete per la lettura dei miei ricordi. Per me è davvero importante poter scrivere tutto. Appena riesco scriverò il seguito! :)
Il miglior ringraziamento è quello di continuare a scrivere. Anche perché senza... Non è la stessa cosa!
 
9.3

Si chiamava Simona ed io e Lucrezia pendevamo dalle sue labbra.
Le sue parole, il suo modo di raccontare, quella sua calma che fino a qualche giorno fa mi sembrava irraggiungibile: la donna che avevo di fronte era una manna dal cielo per la mia anima tormentata.
Accantonammo i nostri problemi per un attimo, io e la femmina dagli occhi verdi, e ci abbandonammo in quella storia che l'angelo dai boccoli d'oro ci stava narrando.
Sedeva di fronte a noi, le mani intrecciate tra loro con le dita ben curate, le unghie smaltate di un rosso acceso che si rincorrevano tra loro, forse l'unico sentore di un certo nervosismo, che tuttavia non traspariva dai suoi modi e dalla sua voce quieta. Aveva un abito floreale, non uno di quelli succinti, ma nemmeno fin troppo casto, con un'ampia scollatura dalla quale s'intravedevano seni sodi, stretti in un reggiseno di pizzo. Una collana con una pietra azzurra le cadeva sullo sterno, ed era la stessa che mi riportava alla mente il mio amico, e la indossava ancora dopo tutto quel tempo, dopo tutti quei cambiamenti che avevano investito entrambi. Lo ricordavo con quei suoi riccioli d'oro e quella catenina addosso, mentre usciva dalle acque del lago dopo i consueti bagni estivi. I suoi sorrisi ed i suoi sguardi erano gli stessi che Simona mi regalava, e nonostante ora fosse lì, in carne ed ossa, in una nuova veste, quei gesti mi parlavano degli anni trascorsi insieme, delle nostre esperienze, dei momenti vissuti in totale spensieratezza. Non le avevo dimenticate quelle giornate a contemplare le acque placide che s'infrangevano sui nostri piedi nudi. Era la nostra boccata d'aria, ogni giorno, prima di rientrare nel carcere della scuola.

Giacomo se ne era andato poco dopo la mia partenza.
Aveva raggiunto suo fratello al nord, e non di certo di sua sponte.
Ci disse che una sera aveva provato a parlare con i suoi genitori della sua situazione, del fatto che non si sentiva a suo agio con se stesso, che non riusciva più a guardarsi allo specchio, che non sopportava più il suo corpo così com'era. Le risposte che ottenne furono le lacrime della madre, le cinghiate del padre, che ebbe almeno la decenza di pagargli un biglietto del treno prima di sbatterlo fuori casa con una manciata di vestiti e una valigia stracciata.
Raccontò di come raggiunse suo fratello, che aveva già ottenuto delle quote dall'azienda di famiglia, e di come lui lo aiutò psicologicamente ed economicamente nel percorso che aveva deciso di intraprendere. Marco, il fratello di Giacomo, pagò di tasca propria tutte le visite, le cliniche, i controlli, qualsiasi cosa per quell'anima da proteggere.
Si amavano platonicamente, e mi ricordo che quando eravamo piccoli, prima ancora che Marco partisse, quel ragazzo ci tirava sempre fuori dai guai.
Era un buono, uno di quelli con il sorriso sempre stampato sul volto persino quando fuori piove, o quando ti piove dentro.
L'ho visto poche volte, ma anche da quello che mi raccontava Giacomo, non l'ho mai immaginato arrabbiato, o triste, o turbato per qualcosa.
Marco, tuttavia, non conobbe mai Simona.
Su, al Nord, ha giocato a poker con qualche siringa di troppo, e ha bluffato con una mano vuota.
Si chiamava Simona, quella donna, perché era il nome che Marco avrebbe voluto dare ad una sua futura figlia.
Ed ora era lei a vivere la vita per tutti e due.

Lucrezia mi afferrò la mano mentre stavo ritto a guardare la strada fuori dalla finestra. Mi strinse forte, ed intrecciò le dita con le mie mettendosi di fianco, a contemplare a sua volta quello scorcio di paese che ci aveva ormai tagliato fuori dalle sue dinamiche.
Le parole di Simona avevano affettaton il mio cervello, come lame affilate di un abile cuoco. In quel momento mi maledii per l'ennesima volta: mi ero dannato l'anima portando così tanto rancore per gente di poco conto, per poi rendermi conto che la persona che avevo vicino, all'epoca, stava vivendo una vera e propria battaglia interiore. Lui, a quel tempo, se ne fregava delle parole degli altri. E lo faceva perché aveva già ben altri problemi per la testa. Ero stato così stupido, così cieco da non accorgermi della sua sofferenza, avevo sempre pensato a me stesso per motivi che ora mi sembravano così futili da farmi sentire a disagio. Giacomo, invece, proprio come suo fratello Marco, mi era sempre stato vicino con quelle labbra sorridenti, a darmi una spalla su cui piangere, a sorreggermi quando invece era lui a doversi sorreggere.
Fu la mano di Lucrezia ad interrompere quel turbinio di emozioni. S'inerpicò su per il mio avambraccio alla stregua di uno scalatore su di una parete rocciosa, e si accoccolò alla mia carne avvigghiandosi al mio arto con tutto il corpo.
Simona era salita al piano superiore per fare una doccia, ed io condividevo quel momento con quella donna dagli occhi di smeraldo, che riusciva a leggermi dentro come se fossi un libro aperto.
-A che pensi?- mi chiese ad una certa, anche se lo sapeva benissimo. Si voltò verso di me cercando il mio sguardo, e tutto ciò che ottenne fu una silenziosa lacrima che rigò perl'ennesima volta il mio viso.
-Che la vita è stronza Lù.- risposi io fissando le vie silenziose.
-Che la vita è stronza.- ripetei di nuovo, come un mantra.
Nelle nostre storie non c'era un briciolo di felicità.
Decisi in quel momento che me la sarei guadagnata, in un modo o nell'altro, con le mani e con i denti.
 
9.3

Si chiamava Simona ed io e Lucrezia pendevamo dalle sue labbra.
Le sue parole, il suo modo di raccontare, quella sua calma che fino a qualche giorno fa mi sembrava irraggiungibile: la donna che avevo di fronte era una manna dal cielo per la mia anima tormentata.
Accantonammo i nostri problemi per un attimo, io e la femmina dagli occhi verdi, e ci abbandonammo in quella storia che l'angelo dai boccoli d'oro ci stava narrando.
Sedeva di fronte a noi, le mani intrecciate tra loro con le dita ben curate, le unghie smaltate di un rosso acceso che si rincorrevano tra loro, forse l'unico sentore di un certo nervosismo, che tuttavia non traspariva dai suoi modi e dalla sua voce quieta. Aveva un abito floreale, non uno di quelli succinti, ma nemmeno fin troppo casto, con un'ampia scollatura dalla quale s'intravedevano seni sodi, stretti in un reggiseno di pizzo. Una collana con una pietra azzurra le cadeva sullo sterno, ed era la stessa che mi riportava alla mente il mio amico, e la indossava ancora dopo tutto quel tempo, dopo tutti quei cambiamenti che avevano investito entrambi. Lo ricordavo con quei suoi riccioli d'oro e quella catenina addosso, mentre usciva dalle acque del lago dopo i consueti bagni estivi. I suoi sorrisi ed i suoi sguardi erano gli stessi che Simona mi regalava, e nonostante ora fosse lì, in carne ed ossa, in una nuova veste, quei gesti mi parlavano degli anni trascorsi insieme, delle nostre esperienze, dei momenti vissuti in totale spensieratezza. Non le avevo dimenticate quelle giornate a contemplare le acque placide che s'infrangevano sui nostri piedi nudi. Era la nostra boccata d'aria, ogni giorno, prima di rientrare nel carcere della scuola.

Giacomo se ne era andato poco dopo la mia partenza.
Aveva raggiunto suo fratello al nord, e non di certo di sua sponte.
Ci disse che una sera aveva provato a parlare con i suoi genitori della sua situazione, del fatto che non si sentiva a suo agio con se stesso, che non riusciva più a guardarsi allo specchio, che non sopportava più il suo corpo così com'era. Le risposte che ottenne furono le lacrime della madre, le cinghiate del padre, che ebbe almeno la decenza di pagargli un biglietto del treno prima di sbatterlo fuori casa con una manciata di vestiti e una valigia stracciata.
Raccontò di come raggiunse suo fratello, che aveva già ottenuto delle quote dall'azienda di famiglia, e di come lui lo aiutò psicologicamente ed economicamente nel percorso che aveva deciso di intraprendere. Marco, il fratello di Giacomo, pagò di tasca propria tutte le visite, le cliniche, i controlli, qualsiasi cosa per quell'anima da proteggere.
Si amavano platonicamente, e mi ricordo che quando eravamo piccoli, prima ancora che Marco partisse, quel ragazzo ci tirava sempre fuori dai guai.
Era un buono, uno di quelli con il sorriso sempre stampato sul volto persino quando fuori piove, o quando ti piove dentro.
L'ho visto poche volte, ma anche da quello che mi raccontava Giacomo, non l'ho mai immaginato arrabbiato, o triste, o turbato per qualcosa.
Marco, tuttavia, non conobbe mai Simona.
Su, al Nord, ha giocato a poker con qualche siringa di troppo, e ha bluffato con una mano vuota.
Si chiamava Simona, quella donna, perché era il nome che Marco avrebbe voluto dare ad una sua futura figlia.
Ed ora era lei a vivere la vita per tutti e due.

Lucrezia mi afferrò la mano mentre stavo ritto a guardare la strada fuori dalla finestra. Mi strinse forte, ed intrecciò le dita con le mie mettendosi di fianco, a contemplare a sua volta quello scorcio di paese che ci aveva ormai tagliato fuori dalle sue dinamiche.
Le parole di Simona avevano affettaton il mio cervello, come lame affilate di un abile cuoco. In quel momento mi maledii per l'ennesima volta: mi ero dannato l'anima portando così tanto rancore per gente di poco conto, per poi rendermi conto che la persona che avevo vicino, all'epoca, stava vivendo una vera e propria battaglia interiore. Lui, a quel tempo, se ne fregava delle parole degli altri. E lo faceva perché aveva già ben altri problemi per la testa. Ero stato così stupido, così cieco da non accorgermi della sua sofferenza, avevo sempre pensato a me stesso per motivi che ora mi sembravano così futili da farmi sentire a disagio. Giacomo, invece, proprio come suo fratello Marco, mi era sempre stato vicino con quelle labbra sorridenti, a darmi una spalla su cui piangere, a sorreggermi quando invece era lui a doversi sorreggere.
Fu la mano di Lucrezia ad interrompere quel turbinio di emozioni. S'inerpicò su per il mio avambraccio alla stregua di uno scalatore su di una parete rocciosa, e si accoccolò alla mia carne avvigghiandosi al mio arto con tutto il corpo.
Simona era salita al piano superiore per fare una doccia, ed io condividevo quel momento con quella donna dagli occhi di smeraldo, che riusciva a leggermi dentro come se fossi un libro aperto.
-A che pensi?- mi chiese ad una certa, anche se lo sapeva benissimo. Si voltò verso di me cercando il mio sguardo, e tutto ciò che ottenne fu una silenziosa lacrima che rigò perl'ennesima volta il mio viso.
-Che la vita è stronza Lù.- risposi io fissando le vie silenziose.
-Che la vita è stronza.- ripetei di nuovo, come un mantra.
Nelle nostre storie non c'era un briciolo di felicità.
Decisi in quel momento che me la sarei guadagnata, in un modo o nell'altro, con le mani e con i denti.
Bello,bello,bellissimo @rancu un turbinio di emozioni assolute,con tanto di introspezioni che fanno capire quante ne hai passate.
Grandissimo,un abbraccio sincero,Giulio
 
9.3

Si chiamava Simona ed io e Lucrezia pendevamo dalle sue labbra.
Le sue parole, il suo modo di raccontare, quella sua calma che fino a qualche giorno fa mi sembrava irraggiungibile: la donna che avevo di fronte era una manna dal cielo per la mia anima tormentata.
Accantonammo i nostri problemi per un attimo, io e la femmina dagli occhi verdi, e ci abbandonammo in quella storia che l'angelo dai boccoli d'oro ci stava narrando.
Sedeva di fronte a noi, le mani intrecciate tra loro con le dita ben curate, le unghie smaltate di un rosso acceso che si rincorrevano tra loro, forse l'unico sentore di un certo nervosismo, che tuttavia non traspariva dai suoi modi e dalla sua voce quieta. Aveva un abito floreale, non uno di quelli succinti, ma nemmeno fin troppo casto, con un'ampia scollatura dalla quale s'intravedevano seni sodi, stretti in un reggiseno di pizzo. Una collana con una pietra azzurra le cadeva sullo sterno, ed era la stessa che mi riportava alla mente il mio amico, e la indossava ancora dopo tutto quel tempo, dopo tutti quei cambiamenti che avevano investito entrambi. Lo ricordavo con quei suoi riccioli d'oro e quella catenina addosso, mentre usciva dalle acque del lago dopo i consueti bagni estivi. I suoi sorrisi ed i suoi sguardi erano gli stessi che Simona mi regalava, e nonostante ora fosse lì, in carne ed ossa, in una nuova veste, quei gesti mi parlavano degli anni trascorsi insieme, delle nostre esperienze, dei momenti vissuti in totale spensieratezza. Non le avevo dimenticate quelle giornate a contemplare le acque placide che s'infrangevano sui nostri piedi nudi. Era la nostra boccata d'aria, ogni giorno, prima di rientrare nel carcere della scuola.

Giacomo se ne era andato poco dopo la mia partenza.
Aveva raggiunto suo fratello al nord, e non di certo di sua sponte.
Ci disse che una sera aveva provato a parlare con i suoi genitori della sua situazione, del fatto che non si sentiva a suo agio con se stesso, che non riusciva più a guardarsi allo specchio, che non sopportava più il suo corpo così com'era. Le risposte che ottenne furono le lacrime della madre, le cinghiate del padre, che ebbe almeno la decenza di pagargli un biglietto del treno prima di sbatterlo fuori casa con una manciata di vestiti e una valigia stracciata.
Raccontò di come raggiunse suo fratello, che aveva già ottenuto delle quote dall'azienda di famiglia, e di come lui lo aiutò psicologicamente ed economicamente nel percorso che aveva deciso di intraprendere. Marco, il fratello di Giacomo, pagò di tasca propria tutte le visite, le cliniche, i controlli, qualsiasi cosa per quell'anima da proteggere.
Si amavano platonicamente, e mi ricordo che quando eravamo piccoli, prima ancora che Marco partisse, quel ragazzo ci tirava sempre fuori dai guai.
Era un buono, uno di quelli con il sorriso sempre stampato sul volto persino quando fuori piove, o quando ti piove dentro.
L'ho visto poche volte, ma anche da quello che mi raccontava Giacomo, non l'ho mai immaginato arrabbiato, o triste, o turbato per qualcosa.
Marco, tuttavia, non conobbe mai Simona.
Su, al Nord, ha giocato a poker con qualche siringa di troppo, e ha bluffato con una mano vuota.
Si chiamava Simona, quella donna, perché era il nome che Marco avrebbe voluto dare ad una sua futura figlia.
Ed ora era lei a vivere la vita per tutti e due.

Lucrezia mi afferrò la mano mentre stavo ritto a guardare la strada fuori dalla finestra. Mi strinse forte, ed intrecciò le dita con le mie mettendosi di fianco, a contemplare a sua volta quello scorcio di paese che ci aveva ormai tagliato fuori dalle sue dinamiche.
Le parole di Simona avevano affettaton il mio cervello, come lame affilate di un abile cuoco. In quel momento mi maledii per l'ennesima volta: mi ero dannato l'anima portando così tanto rancore per gente di poco conto, per poi rendermi conto che la persona che avevo vicino, all'epoca, stava vivendo una vera e propria battaglia interiore. Lui, a quel tempo, se ne fregava delle parole degli altri. E lo faceva perché aveva già ben altri problemi per la testa. Ero stato così stupido, così cieco da non accorgermi della sua sofferenza, avevo sempre pensato a me stesso per motivi che ora mi sembravano così futili da farmi sentire a disagio. Giacomo, invece, proprio come suo fratello Marco, mi era sempre stato vicino con quelle labbra sorridenti, a darmi una spalla su cui piangere, a sorreggermi quando invece era lui a doversi sorreggere.
Fu la mano di Lucrezia ad interrompere quel turbinio di emozioni. S'inerpicò su per il mio avambraccio alla stregua di uno scalatore su di una parete rocciosa, e si accoccolò alla mia carne avvigghiandosi al mio arto con tutto il corpo.
Simona era salita al piano superiore per fare una doccia, ed io condividevo quel momento con quella donna dagli occhi di smeraldo, che riusciva a leggermi dentro come se fossi un libro aperto.
-A che pensi?- mi chiese ad una certa, anche se lo sapeva benissimo. Si voltò verso di me cercando il mio sguardo, e tutto ciò che ottenne fu una silenziosa lacrima che rigò perl'ennesima volta il mio viso.
-Che la vita è stronza Lù.- risposi io fissando le vie silenziose.
-Che la vita è stronza.- ripetei di nuovo, come un mantra.
Nelle nostre storie non c'era un briciolo di felicità.
Decisi in quel momento che me la sarei guadagnata, in un modo o nell'altro, con le mani e con i denti.
Sempre e solo grandi applausi!
 
9.3

Si chiamava Simona ed io e Lucrezia pendevamo dalle sue labbra.
Le sue parole, il suo modo di raccontare, quella sua calma che fino a qualche giorno fa mi sembrava irraggiungibile: la donna che avevo di fronte era una manna dal cielo per la mia anima tormentata.
Accantonammo i nostri problemi per un attimo, io e la femmina dagli occhi verdi, e ci abbandonammo in quella storia che l'angelo dai boccoli d'oro ci stava narrando.
Sedeva di fronte a noi, le mani intrecciate tra loro con le dita ben curate, le unghie smaltate di un rosso acceso che si rincorrevano tra loro, forse l'unico sentore di un certo nervosismo, che tuttavia non traspariva dai suoi modi e dalla sua voce quieta. Aveva un abito floreale, non uno di quelli succinti, ma nemmeno fin troppo casto, con un'ampia scollatura dalla quale s'intravedevano seni sodi, stretti in un reggiseno di pizzo. Una collana con una pietra azzurra le cadeva sullo sterno, ed era la stessa che mi riportava alla mente il mio amico, e la indossava ancora dopo tutto quel tempo, dopo tutti quei cambiamenti che avevano investito entrambi. Lo ricordavo con quei suoi riccioli d'oro e quella catenina addosso, mentre usciva dalle acque del lago dopo i consueti bagni estivi. I suoi sorrisi ed i suoi sguardi erano gli stessi che Simona mi regalava, e nonostante ora fosse lì, in carne ed ossa, in una nuova veste, quei gesti mi parlavano degli anni trascorsi insieme, delle nostre esperienze, dei momenti vissuti in totale spensieratezza. Non le avevo dimenticate quelle giornate a contemplare le acque placide che s'infrangevano sui nostri piedi nudi. Era la nostra boccata d'aria, ogni giorno, prima di rientrare nel carcere della scuola.

Giacomo se ne era andato poco dopo la mia partenza.
Aveva raggiunto suo fratello al nord, e non di certo di sua sponte.
Ci disse che una sera aveva provato a parlare con i suoi genitori della sua situazione, del fatto che non si sentiva a suo agio con se stesso, che non riusciva più a guardarsi allo specchio, che non sopportava più il suo corpo così com'era. Le risposte che ottenne furono le lacrime della madre, le cinghiate del padre, che ebbe almeno la decenza di pagargli un biglietto del treno prima di sbatterlo fuori casa con una manciata di vestiti e una valigia stracciata.
Raccontò di come raggiunse suo fratello, che aveva già ottenuto delle quote dall'azienda di famiglia, e di come lui lo aiutò psicologicamente ed economicamente nel percorso che aveva deciso di intraprendere. Marco, il fratello di Giacomo, pagò di tasca propria tutte le visite, le cliniche, i controlli, qualsiasi cosa per quell'anima da proteggere.
Si amavano platonicamente, e mi ricordo che quando eravamo piccoli, prima ancora che Marco partisse, quel ragazzo ci tirava sempre fuori dai guai.
Era un buono, uno di quelli con il sorriso sempre stampato sul volto persino quando fuori piove, o quando ti piove dentro.
L'ho visto poche volte, ma anche da quello che mi raccontava Giacomo, non l'ho mai immaginato arrabbiato, o triste, o turbato per qualcosa.
Marco, tuttavia, non conobbe mai Simona.
Su, al Nord, ha giocato a poker con qualche siringa di troppo, e ha bluffato con una mano vuota.
Si chiamava Simona, quella donna, perché era il nome che Marco avrebbe voluto dare ad una sua futura figlia.
Ed ora era lei a vivere la vita per tutti e due.

Lucrezia mi afferrò la mano mentre stavo ritto a guardare la strada fuori dalla finestra. Mi strinse forte, ed intrecciò le dita con le mie mettendosi di fianco, a contemplare a sua volta quello scorcio di paese che ci aveva ormai tagliato fuori dalle sue dinamiche.
Le parole di Simona avevano affettaton il mio cervello, come lame affilate di un abile cuoco. In quel momento mi maledii per l'ennesima volta: mi ero dannato l'anima portando così tanto rancore per gente di poco conto, per poi rendermi conto che la persona che avevo vicino, all'epoca, stava vivendo una vera e propria battaglia interiore. Lui, a quel tempo, se ne fregava delle parole degli altri. E lo faceva perché aveva già ben altri problemi per la testa. Ero stato così stupido, così cieco da non accorgermi della sua sofferenza, avevo sempre pensato a me stesso per motivi che ora mi sembravano così futili da farmi sentire a disagio. Giacomo, invece, proprio come suo fratello Marco, mi era sempre stato vicino con quelle labbra sorridenti, a darmi una spalla su cui piangere, a sorreggermi quando invece era lui a doversi sorreggere.
Fu la mano di Lucrezia ad interrompere quel turbinio di emozioni. S'inerpicò su per il mio avambraccio alla stregua di uno scalatore su di una parete rocciosa, e si accoccolò alla mia carne avvigghiandosi al mio arto con tutto il corpo.
Simona era salita al piano superiore per fare una doccia, ed io condividevo quel momento con quella donna dagli occhi di smeraldo, che riusciva a leggermi dentro come se fossi un libro aperto.
-A che pensi?- mi chiese ad una certa, anche se lo sapeva benissimo. Si voltò verso di me cercando il mio sguardo, e tutto ciò che ottenne fu una silenziosa lacrima che rigò perl'ennesima volta il mio viso.
-Che la vita è stronza Lù.- risposi io fissando le vie silenziose.
-Che la vita è stronza.- ripetei di nuovo, come un mantra.
Nelle nostre storie non c'era un briciolo di felicità.
Decisi in quel momento che me la sarei guadagnata, in un modo o nell'altro, con le mani e con i denti.
Ci sei mancato, Rancu.
Per fortuna sei tornato.
Che bello poterti rileggere.
 
9.4

Le acque del lago si riversavano sulla riva nel loro moto perpetuo, senza nulla che potesse mai interrompere quello sciabordio delle onde che si inseguivano una dopo l'altra, a rotolarsi sulla terra bagnata come splendidi amanti.
Più mi fermavo a contemplare il paesaggio, più mi sembrava di vedere le sagome di quei due ragazzini incerti del futuro, delle loro vite, con i loro problemi, che si lasciavano andare in un posto quasi magico, a giocare immersi in un piccolo squarcio di verde poco lontano dalle spire asfissianti del paese.
Eccolo, il piccolo ed inquietante Remo, che simulava gioia quando nel cuore aveva solo rabbia, e si lanciava da quell'altalena seguito dall'angelico Giacomo che nascondeva le sue preoccupazioni dietro un sorriso abbagliante.
Ne era passato di tempo da allora.
La tempesta che avevo nella mente fu interrotta dal chiacchiericcio di Simona che parlava amabilmente con Lucrezia. Mi voltai a guardarle proprio nel momento in cui la mora rise di gusto ad una battuta, e mi dannai l'anima per essere stato tanto sciocco in passato. Giacomo ai tempi aveva capito tutto, ecco perché Simona non aveva faticato molto ad accettare la presenza dell'altra donna. Noi tre, al lago, eravamo tutti vittime, chi in un modo, chi in un altro. Ed io non avevo scusanti per non averlo compreso.
Strinsi i denti con estremo nervosismo: l'odio è un sentimento che logora, e la mia punzione era quella di averlo assaggiato inutilmente verso una persona che andava solo salvata.
Sospirai e mi ritrovai a fissarle, bellissime entrambe.
Simona aveva costantemente i capelli sciolti, con quei boccoli d'oro che le incorniciavano un viso quasi perfetto. Persino quando era Giacomo non aveva mai avuto i lineamenti mascolini, perciò a vederla così sembrava fosse stata donna da sempre. Aveva le mani estremamente curate ed indossava un vestitino leggermente trasparente che le cadeva fino a mezza coscia, con una vistosa scollatura sul petto dove s'intravedeva il costume nero.
Lucrezia invece non la smetteva di sorprendermi.
Non le serviva chissà quale vestito per essere al centro dell'attenzione. E difatti, nonostante avesse un paio di shorts semplicissimi, una T-shirt bianca e delle infradito ai piedi, io non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. Eppure, la seradella rimpatriata non aveva fatto nulla per smentire l'idea che mi ero fatto di lei: una donna frivola, in cerca di attenzioni, che vuole soltanto apparire per dimostrare chissà cosa. Mi aveva dato dimostrazione più di una volta, in quei giorni, di non essere così, e quella era l'ennesima conferma. Non ebbi più dubbi, ormai: Francesco le diceva pure come vestirsi, quando indossare un abito invece di un altro, quando truccarsi e quando essere appariscente.
Mi maledii per non avergli sferrato un pugno in più.
Lei era stupenda anche con quelle ciabatte da due euro.
In più, aveva quello sguardo magnetico, che trascendeva l'umana comprensione. Ed era incredibile perché quel giorno indossava un paio di occhiali da sole a specchio, eppure mi sembrava di vederle, quelle iridi, bucare la parete oscura che altrimenti avrebbe dovuto ottenebrarle la vista. Non c'erano filtri, per lei: mi guardava l'anima, me la attorcigliava con una semplice occhiata, in un modo impossibile da descrivere.
Si avvicinarono a passo svelto e sentii l'ultimo stralcio di conversazione.
-...era magro come un chiodo e guardalo ora!- mi indicava Simona.
Lucrezia si voltò a guardarmi e sorrise. Avevo una canottiera, un paio di bermuda, ed ero già scalzo da un bel pezzo. Addosso, tra i muscoli guizzanti, avevo ancora svariati segni delle percosse subite, sebbene in via di remissione.
-Beh, anche tu sei cambiata tanto!- le rispose Lucrezia in un mezzo sorriso, dopo avermi rifilato uno sguardo da sotto gli occhiali che non riuscii a decifrare.
Simona rise. -Com'è che si dice? "Sei un'altra persona." Beh, nel mio caso è vero.-
Non so dire il perché, ma in quel momento ero terribilmente in imbarazzo. Sentivo il viso che andava a fuoco, e come un gesto di autodifesa mi rabbuiai, mettendo quasi il broncio. Ero un orso, e non facevo altro che fissare le acque del lago per contemplare le immagini di un tempo che non c'era più.

Per una serie vastissima di motivi non avevo assolutamente voglia di bagnarmi, per questo rifiutai l'invito di Simona, che in tutta risposta scrollò le spalle e si diresse a passo svelto verso le acque. Mi sorpresi nel vederla per nulla imbarazzata di fronte a noi: tolse il vestitino e rimase in costume, a dare sfoggio del suo corpo ben fatto, con le curve al punto giusto. Un attimo dopo si immerse nei flutti, e la vedevamo da lontano salutarci con la mano mentre nuotava e si divertiva, scrollandosi di dosso tutte le sue preoccupazioni.
Tra me e Lucrezia, invece, non volava una mosca. Me ne stavo appoggiato alla pianta che mi aveva visto crescere, in piedi coccolato nella sua corteccia. La sentivo muoversi poco lontano, probabilmente si stava posizionando a terra sul suo asciugamano, ma non volevo voltarmi a guardarla perché sapevo che sarebbe stato peggiore di qualsiasi altro pugno in faccia. Aveva un forte ascendente su di me, per quanto io non volessi ammetterlo, ed ero anche consapevole del fatto che lei fosse al corrente della questione.
Non so dire quanto tempo passò prima di sentire la sua voce.
-Era qui che venivate sempre?- mi disse ad una certa, spaccando a metà il silenzio con la sua voce che sembrava una scure.
Mi voltai e la vidi distesa a terra, il busto sorretto dai gomiti, il volto puntato su di me, con il costume a due pezzi che le ricopriva le parti intime. Ed eccolo lì, quel pugno sul mio mento: aveva la pelle ambrata, vagamente imperlata di sudore, che brillava alla luce diurna a risaltare le sue curve. Le gambe distese erano ben tornite, toniche, lisce come il petalo di un fiore, e terminavano con piedi che rasentavano la perfezione, dallo smalto stavolta blu come il mare.
Cercai di non posarle i miei occhi addosso, ma lo feci ugualmente per qualche secondo, e sono convinto lei se ne accorse. Non disse nulla, rimase a fissarmi con un debole sorriso ad incresparle le labbra, ed attendeva una risposta da parte mia che faticava ad arrivare.
Annuii semplicemente, prima di avvicinarmi a lei a passo lento. Mi misi seduto di fianco a quella donna e la emulai, rimanendo in bilico sui miei gomiti. Fissavo l'orizzonte, un punto imprecisato, e vedevo la sagoma di Simona nuotare e giocare tra le onde del lago.
Non era cambiato nulla da allora, se non la mia presenza sul prato invece che nell'acqua.
-C'era un'altalena, una volta. Ci lanciavamo spesso da lì.- indicai un ramo sporgente, il nostro vecchio parco giochi.
Non c'era più, quell'altalena, e compresi all'istante di quanto fosse un pò come la nostra vita. Oscilla in un verso, poi in un altro, poi alla fine ti butti e ricominci tutto da capo, fin quando qualcuno non taglia la corda e ti ritrovi con un nulla di fatto, ad esserti divertito per un pò, in una breve finestra tra rabbie, preoccupazioni e dolori.
Cos'era, per me, la gioia? Un lasso di tempo infinitesimale, come l'ora d'aria dei carcerati. E quando mi avevano sbattuto in faccia l'età adulta, avevo quasi dimenticato di come si fa per essere realmente felici.
Forse perché, in fin dei conti, non lo ero mai stato.
Sospirai socchiudendo gli occhi, un tentativo di proteggermi da quel sole accecante.
-Venivamo ogni giorno dopo scuola. Cercavamo di dimenticare qui.- glielo sputai addosso e non so nemmeno il perché. Non volevo farle male, ma fu qualcosa di spontaneo, di inatteso, e mi pentii subito dopo di averlo detto.
Lei mi sorprese rispondendomi in un attimo, e quelle sue parole furono come una stilettata tra le costole.
-Avrei voluto dimenticare ogni giorno anche io.-
Mi voltai a guardarla, lei fece lo stesso. Aveva gli occhiali addosso, ma era come vederle gli occhi di smeraldo, quei prati infiniti dove io correvo ogni giorno a piedi scalzi. Non so nemmeno io per quanto tempo rimanemmo a fissarci. Era come se le nostre anime s'intrecciassero, ricucissero a vicenda le loro ferite, e diventassero un tutt'uno in un mondo che ci stava pian piano sputando fuori dalla sua realtà.
Avrei voluto baciarla, assaporare quelle labbra, ma per qualche motivo a me sconosciuto non lo feci.
-Mi dispiace.- farfugliai, e forse lo dissi non solo per scusarmi di ciò che le avevo gettato addosso, ma anche per non essermi buttato definitivamente da quell'altalena.
Tornai a guardare l'orizzonte, lei mi emulò.
Eppure, sentii il tocco inconfondibile della sua mano sulla mia, le sue dita che cercavano la mia carne. La assecondani e rimanemmo così per un bel pezzo.
Volevo perdermi in quel prato con lei, godermi la giornata con Lucrezia e Simona, ma una nube si stagliava da lontano pronta a ricoprire quella palla infuocata nel cielo.
Aveva strane vibrazioni, quella coltre fumosa.
Le vibrazioni del mio dannato, odiato, maledetto cellulare.
 
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