Racconto di fantasia Chiamami per un controllo

5. Controlli di qualità

La mattina dopo mi sveglio con calma. La notte l’ho pensata. E non solo mentalmente. Verso tarda mattinata, le scrivo.

“Com’è andata la riunione?”
Mi risponde subito.
“Bene. Per fortuna che ho dormito. Altrimenti sarebbe stato un disastro.”
Penso a qualche battuta simpatica per risponderle, ma lei mi anticipa, non andando troppo per il sottile.
“Stasera però... non vorrei dormire.”

Cazzo. Diretta la ragazza, mi piace. Ma potevo aspettarmelo. Ormai, ho cominciato a inquadrare Miriam. Leggo il messaggio, mi rigiro il cellulare tra le mani. Poi mi torna in mente un impegno già fissato. Un cazzo di anniversario di un mio cugino di cui mi frega poco o niente. Ma di quelli ai quali non puoi mancare, per non sembrare asociale e poco interessato alla famiglia. Già li vedo una volta ogni morte di papa – letteralmente, di questi tempi. Mi piange il cuore, ma devo dire a Miriam di rimandare il nostro incontro. Sperando che non se la prenda a male.

“Stasera non riesco… robe di famiglia… due palle.”
“Capito. Non ti invidio.”
Ancora una volta, penso a come uscire dall’impasse, ma ci pensa lei a indirizzare la conversazione.
“Tanto domattina passi in azienda, no?”
“Mah non so, non c’è molto da controllare, ho sistemato tutto l’altro ieri.”
Realizzo con un secondo di ritardo. A volte mi sento proprio stupido.
“Magari puoi controllare me.”
“Beh, mi sembra una proposta molto interessante.”
“Allora a domani.” chiude lei con un emoji del bacio.

La mattina dopo arrivo con calma, verso le undici. Doccia fatta, barba pure, dopobarba fresco passato e camicia leggera. Lei è in jeans e maglietta nera aderente, il caldo comincia a farsi sentire. Stavolta, però, il reggiseno lo ha. Con una maglietta del genere, sarebbe stato troppo audace non metterlo. Occhi truccati poco, come di consueto, ma quel poco che basta per ingrandirli.

Mi accoglie con un sorriso appena accennato. Si guarda intorno con aria circospetta, poi mi guida verso il retro, dove c’è una zona seminterrata, chiusa da una porta con scritto “Uso tecnico – accesso riservato”.

È un vecchio locale di stoccaggio: scaffali metallici pieni di detersivi industriali, scatoloni mezzi aperti, un banco da lavoro in disuso e una finestra in alto che dà sull’esterno, ma in una zona dove non passa quasi mai nessuno. E con le grate, difficilmente si vedrebbe qualcosa. Il pavimento è in cemento lucido, l’odore è un mix tra solvente e profumo di fiori sintetici. Non il massimo. E poi, se qualcosa ci si rovesciasse addosso, probabilmente finiremmo in pronto soccorso. Ma ci dobbiamo accontentare.

Lei chiude la porta. Ma non a chiave, anche perché non c’è.
“Tranquillo”, dice. “Di solito qui non entra nessuno. Di solito.”
Rido nervosamente.
“Questo sì che è rassicurante!”

Lei mi viene vicino. Si spiaccica letteralmente sul mio petto.
“Allora, vuoi controllare?”
“Non mi sembra che ci sia qualcosa che non va.”
“In effetti no.” fa lei con un po’ di spocchia. “Ma tu controlla uguale.”

Si fionda su di me, aprendo avidamente la bocca per coprire la mia e sguinzagliare la sua lingua. La prendo per la vita, la sollevo leggermente, lei si appoggia al banco. Sento nella sua bocca calda un leggero retrogusto di quello schifoso caffè della macchinetta, ma che mescolato al suo sapore lo fa sembrare il gusto migliore del mondo.

Le mani mi scorrono sopra la maglia, poi sotto. Sento la pelle dell’addome, morbida, il reggiseno sottile, che inizio ad esplorare infilandoci le mani dentro smanioso di sentire di nuovo il suo seno.

Lei sospira, mi morde leggermente il labbro inferiore. Con le gambe si stringe intorno a me, mi tira contro. Ci aggrovigliamo sempre di più l’uno sull’altra, con difficoltà le slaccio il reggiseno che ricade sulle sue cosce. Finalmente posso tirarle su la maglietta e liberare le sue tette enormi. Mi ci fiondo con la bocca: le lecco, le succhio, le stuzzico i capezzoli, le palpo a mani aperte.

“Fammi vedere quanto sei bravo con le mani, ingegnere.” mi invita lei.
La guardo strizzando un occhio. Le sbottono i jeans e calo piano piano la zip. Lei si inarca appena. Intravedo le sue mutandine, sono di un rosa chiaro, con un bordo di pizzo in alto ed un fiorellino, credo una margherita. Infilo la mano dentro, sento il monte di Venere liscio, morbido. Mi avvicino con l’indice al clitoride, sfrego la sua apertura che sento già calda e bagnata.

Mi guarda, sta arrossendo in viso, ma vedo che la voglia si sta impossessando di lei.
“Dai, fammi sentire…”

Proprio in quel momento, un rumore sordo. Prima una porta sbattuta, poi una voce in lontananza che mi chiama – o chi chiama – di cui non riesco a distinguere il proprietario.

Passi. Passi pesanti. Ho già capito tutto. Ci blocchiamo, come fermati da una mano invisibile. Levo la mano, lei si tira giù la maglia di scatto, si sistema il jeans. Non fa in tempo a indossare il reggiseno, che nasconde rapidamente in uno scatolone.

“Porca troia.” sussurro.
Lei si passa le dita tra i capelli, per ricomporsi.
“Che palle.”
Ci guardiamo. Lei sorride con un velo di amarezza.
“Questa cosa che ci interrompono sempre... comincia a sembrarmi personale.”
“Già.”

Quindi sento la voce forte, inconfondibile, di Flavio.
FABRI’?!” urla.
Ancora qualche passo, sempre più vicino, poi la porta si apre. Flavio mi squadra, mentre faccio finta – con poco successo – di controllare qualcosa.

“Che ce fai qua dietro?”
Io balbetto qualcosa, una scusa poco credibile.
“Eh… c’era un sensore che... volevo controllare, sai, era rimasto un problema…”
Mi fulmina lo sguardo. Riprende a parlare, sempre più serio.
“Ma che cazzo stai a dì? Mica ce starai a prova co mi sorella, eh? Guarda che te rompo er culo.”
Mi irrigidisco, ma cerco di mantenere la calma.
“No, ma che dici… ma te pare?”
Lui resta a fissarmi per un secondo troppo lungo. Poi fa una risata, forse finta.
“Daje, vieni va’. Me devi vede’ ‘na cosa.”

Mi trascina via per un braccio, quasi di forza. Mi giro velocemente per incrociare lo sguardo di Miriam. Lei è ancora lì, immobile, rossa in viso e con gli occhi che fissano il pavimento. Mi sento come un bambino che viene beccato dalla mamma a fare una marachella.

Ma non sono un bambino. E Flavio non è mio padre. Fanculo a lui, io voglio Miriam punto e basta. Non me ne frega un cazzo. Non mi importa se l’ha capito. Non mi importa se lo sospetta. Io Miriam la voglio.
 
Ahahahah mi ricorda le leggende che circolavano in fabbrica da me, o le due o tre volte che anni prima beccai la figlia del mio titolare di allora, molto ben presa dall' impresario edile che faceva dei restauri preventivi a lei, mentre i muratori pensavano alla casa...
La figlia del capo è un grande classico…😂
 
Faccio un piccolo Out topic. Guarda fü un periodo strano, noi eravamo sotto la rialzo della collina dove si svolgevano i lavori, ma al contempo eravamo i fornitori di una parte dei materiali edili. Quindi capitava di salire per consegnarli, lei spesso era là per visionare e prendere il sole. Eravamo forse come adesso già verso l'estate. Ma capitava anche che l'impresario scendesse da noi per ovvi motivi di lavoro, ma notammo una bella differenza di frequenza, in queste visite. Anche la più piccola mattonella, singola, lui non perdeva occasione di portarcela. Ma non con il camion della ditta. Già al tempo aveva il Mercedes G... Lei non era una delle sette bellezze, era di base molto magra, capezzoli sinceri, ma come accade in queste situazioni era una corda di violino, soda, molto spigliata. Nelle pause pranzo, capitava venisse in ditta, molte volte parlavamo insieme, mentre stavamo all'ombra degli alberi...quante volte quel sottile perizoma non conteneva quei tre etti per lato delle sue grandi labbra, mentre stava seduta a gambe incrociate.
 
Sti fratelli però, e farsi l'undicesimo comandamento? È maggiorenne e vaccinata la ragazza! Ahahahah.
Bellissimo racconto è giusto che debba soffrire un po' il nostro ingegnere.
Continua che è veramente interessante la storia che stai inventando anche se molto reale chissà a quanti è successo qualcosa di simile
 
Faccio un piccolo Out topic. Guarda fü un periodo strano, noi eravamo sotto la rialzo della collina dove si svolgevano i lavori, ma al contempo eravamo i fornitori di una parte dei materiali edili. Quindi capitava di salire per consegnarli, lei spesso era là per visionare e prendere il sole. Eravamo forse come adesso già verso l'estate. Ma capitava anche che l'impresario scendesse da noi per ovvi motivi di lavoro, ma notammo una bella differenza di frequenza, in queste visite. Anche la più piccola mattonella, singola, lui non perdeva occasione di portarcela. Ma non con il camion della ditta. Già al tempo aveva il Mercedes G... Lei non era una delle sette bellezze, era di base molto magra, capezzoli sinceri, ma come accade in queste situazioni era una corda di violino, soda, molto spigliata. Nelle pause pranzo, capitava venisse in ditta, molte volte parlavamo insieme, mentre stavamo all'ombra degli alberi...quante volte quel sottile perizoma non conteneva quei tre etti per lato delle sue grandi labbra, mentre stava seduta a gambe incrociate.
Molto intrigante

Sti fratelli però, e farsi l'undicesimo comandamento? È maggiorenne e vaccinata la ragazza! Ahahahah.
Bellissimo racconto è giusto che debba soffrire un po' il nostro ingegnere.
Continua che è veramente interessante la storia che stai inventando anche se molto reale chissà a quanti è successo qualcosa di simile
Ti dico che i personaggi in realtà non sono inventati, e si comportano realmente così con la sorella...
Se non fossi stato fidanzato forse sarebbe andata in modo simile
 
Molto intrigante


Ti dico che i personaggi in realtà non sono inventati, e si comportano realmente così con la sorella...
Se non fossi stato fidanzato forse sarebbe andata in modo simile
Ci crederai o no ma ho vissuto una storia simile sul serio nella mia vita. Quindi tra un po' di romanzato ed un po' vero è un bel racconto e scritto bene con eleganza direi
 
5. Controlli di qualità

La mattina dopo mi sveglio con calma. La notte l’ho pensata. E non solo mentalmente. Verso tarda mattinata, le scrivo.

“Com’è andata la riunione?”
Mi risponde subito.
“Bene. Per fortuna che ho dormito. Altrimenti sarebbe stato un disastro.”
Penso a qualche battuta simpatica per risponderle, ma lei mi anticipa, non andando troppo per il sottile.
“Stasera però... non vorrei dormire.”

Cazzo. Diretta la ragazza, mi piace. Ma potevo aspettarmelo. Ormai, ho cominciato a inquadrare Miriam. Leggo il messaggio, mi rigiro il cellulare tra le mani. Poi mi torna in mente un impegno già fissato. Un cazzo di anniversario di un mio cugino di cui mi frega poco o niente. Ma di quelli ai quali non puoi mancare, per non sembrare asociale e poco interessato alla famiglia. Già li vedo una volta ogni morte di papa – letteralmente, di questi tempi. Mi piange il cuore, ma devo dire a Miriam di rimandare il nostro incontro. Sperando che non se la prenda a male.

“Stasera non riesco… robe di famiglia… due palle.”
“Capito. Non ti invidio.”
Ancora una volta, penso a come uscire dall’impasse, ma ci pensa lei a indirizzare la conversazione.
“Tanto domattina passi in azienda, no?”
“Mah non so, non c’è molto da controllare, ho sistemato tutto l’altro ieri.”
Realizzo con un secondo di ritardo. A volte mi sento proprio stupido.
“Magari puoi controllare me.”
“Beh, mi sembra una proposta molto interessante.”
“Allora a domani.” chiude lei con un emoji del bacio.

La mattina dopo arrivo con calma, verso le undici. Doccia fatta, barba pure, dopobarba fresco passato e camicia leggera. Lei è in jeans e maglietta nera aderente, il caldo comincia a farsi sentire. Stavolta, però, il reggiseno lo ha. Con una maglietta del genere, sarebbe stato troppo audace non metterlo. Occhi truccati poco, come di consueto, ma quel poco che basta per ingrandirli.

Mi accoglie con un sorriso appena accennato. Si guarda intorno con aria circospetta, poi mi guida verso il retro, dove c’è una zona seminterrata, chiusa da una porta con scritto “Uso tecnico – accesso riservato”.

È un vecchio locale di stoccaggio: scaffali metallici pieni di detersivi industriali, scatoloni mezzi aperti, un banco da lavoro in disuso e una finestra in alto che dà sull’esterno, ma in una zona dove non passa quasi mai nessuno. E con le grate, difficilmente si vedrebbe qualcosa. Il pavimento è in cemento lucido, l’odore è un mix tra solvente e profumo di fiori sintetici. Non il massimo. E poi, se qualcosa ci si rovesciasse addosso, probabilmente finiremmo in pronto soccorso. Ma ci dobbiamo accontentare.

Lei chiude la porta. Ma non a chiave, anche perché non c’è.
“Tranquillo”, dice. “Di solito qui non entra nessuno. Di solito.”
Rido nervosamente.
“Questo sì che è rassicurante!”

Lei mi viene vicino. Si spiaccica letteralmente sul mio petto.
“Allora, vuoi controllare?”
“Non mi sembra che ci sia qualcosa che non va.”
“In effetti no.” fa lei con un po’ di spocchia. “Ma tu controlla uguale.”

Si fionda su di me, aprendo avidamente la bocca per coprire la mia e sguinzagliare la sua lingua. La prendo per la vita, la sollevo leggermente, lei si appoggia al banco. Sento nella sua bocca calda un leggero retrogusto di quello schifoso caffè della macchinetta, ma che mescolato al suo sapore lo fa sembrare il gusto migliore del mondo.

Le mani mi scorrono sopra la maglia, poi sotto. Sento la pelle dell’addome, morbida, il reggiseno sottile, che inizio ad esplorare infilandoci le mani dentro smanioso di sentire di nuovo il suo seno.

Lei sospira, mi morde leggermente il labbro inferiore. Con le gambe si stringe intorno a me, mi tira contro. Ci aggrovigliamo sempre di più l’uno sull’altra, con difficoltà le slaccio il reggiseno che ricade sulle sue cosce. Finalmente posso tirarle su la maglietta e liberare le sue tette enormi. Mi ci fiondo con la bocca: le lecco, le succhio, le stuzzico i capezzoli, le palpo a mani aperte.

“Fammi vedere quanto sei bravo con le mani, ingegnere.” mi invita lei.
La guardo strizzando un occhio. Le sbottono i jeans e calo piano piano la zip. Lei si inarca appena. Intravedo le sue mutandine, sono di un rosa chiaro, con un bordo di pizzo in alto ed un fiorellino, credo una margherita. Infilo la mano dentro, sento il monte di Venere liscio, morbido. Mi avvicino con l’indice al clitoride, sfrego la sua apertura che sento già calda e bagnata.

Mi guarda, sta arrossendo in viso, ma vedo che la voglia si sta impossessando di lei.
“Dai, fammi sentire…”

Proprio in quel momento, un rumore sordo. Prima una porta sbattuta, poi una voce in lontananza che mi chiama – o chi chiama – di cui non riesco a distinguere il proprietario.

Passi. Passi pesanti. Ho già capito tutto. Ci blocchiamo, come fermati da una mano invisibile. Levo la mano, lei si tira giù la maglia di scatto, si sistema il jeans. Non fa in tempo a indossare il reggiseno, che nasconde rapidamente in uno scatolone.

“Porca troia.” sussurro.
Lei si passa le dita tra i capelli, per ricomporsi.
“Che palle.”
Ci guardiamo. Lei sorride con un velo di amarezza.
“Questa cosa che ci interrompono sempre... comincia a sembrarmi personale.”
“Già.”

Quindi sento la voce forte, inconfondibile, di Flavio.
FABRI’?!” urla.
Ancora qualche passo, sempre più vicino, poi la porta si apre. Flavio mi squadra, mentre faccio finta – con poco successo – di controllare qualcosa.

“Che ce fai qua dietro?”
Io balbetto qualcosa, una scusa poco credibile.
“Eh… c’era un sensore che... volevo controllare, sai, era rimasto un problema…”
Mi fulmina lo sguardo. Riprende a parlare, sempre più serio.
“Ma che cazzo stai a dì? Mica ce starai a prova co mi sorella, eh? Guarda che te rompo er culo.”
Mi irrigidisco, ma cerco di mantenere la calma.
“No, ma che dici… ma te pare?”
Lui resta a fissarmi per un secondo troppo lungo. Poi fa una risata, forse finta.
“Daje, vieni va’. Me devi vede’ ‘na cosa.”

Mi trascina via per un braccio, quasi di forza. Mi giro velocemente per incrociare lo sguardo di Miriam. Lei è ancora lì, immobile, rossa in viso e con gli occhi che fissano il pavimento. Mi sento come un bambino che viene beccato dalla mamma a fare una marachella.

Ma non sono un bambino. E Flavio non è mio padre. Fanculo a lui, io voglio Miriam punto e basta. Non me ne frega un cazzo. Non mi importa se l’ha capito. Non mi importa se lo sospetta. Io Miriam la voglio.
Anche questo capitolo è scritto divinamente. Certo che palle sti fratelli in fondo lei è adulta e non penso sei il primo che se la vvuole fare..........
 
5. Controlli di qualità

La mattina dopo mi sveglio con calma. La notte l’ho pensata. E non solo mentalmente. Verso tarda mattinata, le scrivo.

“Com’è andata la riunione?”
Mi risponde subito.
“Bene. Per fortuna che ho dormito. Altrimenti sarebbe stato un disastro.”
Penso a qualche battuta simpatica per risponderle, ma lei mi anticipa, non andando troppo per il sottile.
“Stasera però... non vorrei dormire.”

Cazzo. Diretta la ragazza, mi piace. Ma potevo aspettarmelo. Ormai, ho cominciato a inquadrare Miriam. Leggo il messaggio, mi rigiro il cellulare tra le mani. Poi mi torna in mente un impegno già fissato. Un cazzo di anniversario di un mio cugino di cui mi frega poco o niente. Ma di quelli ai quali non puoi mancare, per non sembrare asociale e poco interessato alla famiglia. Già li vedo una volta ogni morte di papa – letteralmente, di questi tempi. Mi piange il cuore, ma devo dire a Miriam di rimandare il nostro incontro. Sperando che non se la prenda a male.

“Stasera non riesco… robe di famiglia… due palle.”
“Capito. Non ti invidio.”
Ancora una volta, penso a come uscire dall’impasse, ma ci pensa lei a indirizzare la conversazione.
“Tanto domattina passi in azienda, no?”
“Mah non so, non c’è molto da controllare, ho sistemato tutto l’altro ieri.”
Realizzo con un secondo di ritardo. A volte mi sento proprio stupido.
“Magari puoi controllare me.”
“Beh, mi sembra una proposta molto interessante.”
“Allora a domani.” chiude lei con un emoji del bacio.

La mattina dopo arrivo con calma, verso le undici. Doccia fatta, barba pure, dopobarba fresco passato e camicia leggera. Lei è in jeans e maglietta nera aderente, il caldo comincia a farsi sentire. Stavolta, però, il reggiseno lo ha. Con una maglietta del genere, sarebbe stato troppo audace non metterlo. Occhi truccati poco, come di consueto, ma quel poco che basta per ingrandirli.

Mi accoglie con un sorriso appena accennato. Si guarda intorno con aria circospetta, poi mi guida verso il retro, dove c’è una zona seminterrata, chiusa da una porta con scritto “Uso tecnico – accesso riservato”.

È un vecchio locale di stoccaggio: scaffali metallici pieni di detersivi industriali, scatoloni mezzi aperti, un banco da lavoro in disuso e una finestra in alto che dà sull’esterno, ma in una zona dove non passa quasi mai nessuno. E con le grate, difficilmente si vedrebbe qualcosa. Il pavimento è in cemento lucido, l’odore è un mix tra solvente e profumo di fiori sintetici. Non il massimo. E poi, se qualcosa ci si rovesciasse addosso, probabilmente finiremmo in pronto soccorso. Ma ci dobbiamo accontentare.

Lei chiude la porta. Ma non a chiave, anche perché non c’è.
“Tranquillo”, dice. “Di solito qui non entra nessuno. Di solito.”
Rido nervosamente.
“Questo sì che è rassicurante!”

Lei mi viene vicino. Si spiaccica letteralmente sul mio petto.
“Allora, vuoi controllare?”
“Non mi sembra che ci sia qualcosa che non va.”
“In effetti no.” fa lei con un po’ di spocchia. “Ma tu controlla uguale.”

Si fionda su di me, aprendo avidamente la bocca per coprire la mia e sguinzagliare la sua lingua. La prendo per la vita, la sollevo leggermente, lei si appoggia al banco. Sento nella sua bocca calda un leggero retrogusto di quello schifoso caffè della macchinetta, ma che mescolato al suo sapore lo fa sembrare il gusto migliore del mondo.

Le mani mi scorrono sopra la maglia, poi sotto. Sento la pelle dell’addome, morbida, il reggiseno sottile, che inizio ad esplorare infilandoci le mani dentro smanioso di sentire di nuovo il suo seno.

Lei sospira, mi morde leggermente il labbro inferiore. Con le gambe si stringe intorno a me, mi tira contro. Ci aggrovigliamo sempre di più l’uno sull’altra, con difficoltà le slaccio il reggiseno che ricade sulle sue cosce. Finalmente posso tirarle su la maglietta e liberare le sue tette enormi. Mi ci fiondo con la bocca: le lecco, le succhio, le stuzzico i capezzoli, le palpo a mani aperte.

“Fammi vedere quanto sei bravo con le mani, ingegnere.” mi invita lei.
La guardo strizzando un occhio. Le sbottono i jeans e calo piano piano la zip. Lei si inarca appena. Intravedo le sue mutandine, sono di un rosa chiaro, con un bordo di pizzo in alto ed un fiorellino, credo una margherita. Infilo la mano dentro, sento il monte di Venere liscio, morbido. Mi avvicino con l’indice al clitoride, sfrego la sua apertura che sento già calda e bagnata.

Mi guarda, sta arrossendo in viso, ma vedo che la voglia si sta impossessando di lei.
“Dai, fammi sentire…”

Proprio in quel momento, un rumore sordo. Prima una porta sbattuta, poi una voce in lontananza che mi chiama – o chi chiama – di cui non riesco a distinguere il proprietario.

Passi. Passi pesanti. Ho già capito tutto. Ci blocchiamo, come fermati da una mano invisibile. Levo la mano, lei si tira giù la maglia di scatto, si sistema il jeans. Non fa in tempo a indossare il reggiseno, che nasconde rapidamente in uno scatolone.

“Porca troia.” sussurro.
Lei si passa le dita tra i capelli, per ricomporsi.
“Che palle.”
Ci guardiamo. Lei sorride con un velo di amarezza.
“Questa cosa che ci interrompono sempre... comincia a sembrarmi personale.”
“Già.”

Quindi sento la voce forte, inconfondibile, di Flavio.
FABRI’?!” urla.
Ancora qualche passo, sempre più vicino, poi la porta si apre. Flavio mi squadra, mentre faccio finta – con poco successo – di controllare qualcosa.

“Che ce fai qua dietro?”
Io balbetto qualcosa, una scusa poco credibile.
“Eh… c’era un sensore che... volevo controllare, sai, era rimasto un problema…”
Mi fulmina lo sguardo. Riprende a parlare, sempre più serio.
“Ma che cazzo stai a dì? Mica ce starai a prova co mi sorella, eh? Guarda che te rompo er culo.”
Mi irrigidisco, ma cerco di mantenere la calma.
“No, ma che dici… ma te pare?”
Lui resta a fissarmi per un secondo troppo lungo. Poi fa una risata, forse finta.
“Daje, vieni va’. Me devi vede’ ‘na cosa.”

Mi trascina via per un braccio, quasi di forza. Mi giro velocemente per incrociare lo sguardo di Miriam. Lei è ancora lì, immobile, rossa in viso e con gli occhi che fissano il pavimento. Mi sento come un bambino che viene beccato dalla mamma a fare una marachella.

Ma non sono un bambino. E Flavio non è mio padre. Fanculo a lui, io voglio Miriam punto e basta. Non me ne frega un cazzo. Non mi importa se l’ha capito. Non mi importa se lo sospetta. Io Miriam la voglio.
Letto tutto d'un fiato, veramente bello e interessante.....complimenti :love:
 
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