8. Faenza
Mi aveva scritto la sera prima.
“Domani ti faccio aprire alle 7, così lavoriamo meglio.”
Aprire… che cosa? Era stata volutamente ambigua, come sempre.
Mi sveglio già eccitato, con le coperte tese dall’erezione. Quando arrivo a Essenza Lab, la città sembra ancora dormire. Parcheggio un po’ distante, non si sa mai. Mi guardo intorno circospetto. Ho i brividi, sia per il fresco della mattina, sia per la sensazione di star facendo qualcosa di proibito. Entro col badge che mi ha lasciato.
Dentro non c’è nessuno. Solo le luci d’emergenza e i miei passi che rimbombano nel silenzio. Metto in fila qualche passo incerto, arrivo fino al suo ufficio. Lei è già lì che mi aspetta. La vedo da dietro il vetro, ha una delle sue solite felpe, e sotto una maglietta. Ma il reggiseno, quello no, come sempre.
“Buongiorno.” mi dice non appena varco la soglia.
Chiude la porta, a scanso di equivoci. Ma è solo scena: le pareti di vetro non garantiscono comunque la privacy. Mi viene incontro, piano, vedo la voglia dipinta sui suoi occhi. Poggia le labbra sulle mie, e ricomincia la danza delle nostre lingue.
Le apro frettolosamente la zip della felpa, ha una maglietta bianca. Vedo chiaramente la forma del suo seno che ormai conosco più che bene, i capezzoli spingono e si fanno notare in tutti i modi riempiendo le trame del tessuto ed apparendo in trasparenza.
La spingo piano sul tavolo, lei comincia a sbottonarsi i jeans e li abbassa il giusto, poi scansa le mutandine. Solo qualche tocco della mia mano, quel tanto che basta per renderla più umida di quanto già non sia. Scivolo dentro in un attimo.
La più classica delle sveltine: colpi forti, ansimi deboli, sensazione di qualcosa di proibito nell’aria. Lei si morde il polso per non gridare. Io spingo forte, fino a che non sono in procinto di venire. Lo tiro fuori in fretta, le sollevo la maglietta, e schizzo di piacere sul suo ventre. Adocchio un dispenser di fazzoletti sulla scrivania, e ne approfitto per ripulirla alla buona.
Ci vestiamo in fretta per evitare sorprese spiacevoli. Già troppe volte siamo stati interrotti ingiustamente. Almeno stavolta siamo riusciti ad andare fino in fondo. Miriam si tira su a fatica, e si siede sulla scrivania, si sistema i capelli e mi dà un bacio.
“Vai, esci, fatti un giro.” mi ordina. “Torna verso le 8 e qualcosa, quando sono già arrivati tutti.”
Annuisco ed eseguo.
Quando entro di nuovo, sono già tutti in ufficio. Saluto con un sorriso allegro, forse troppo. E come potrebbe essere il contrario? Ho scopato con Miriam neanche un’ora fa. La mattinata deve ancora cominciare, ognuno ancora si fa un po’ di cazzi suoi: Flavio sta con la testa sul monitor, Lorenzo chino sul telefono. Miriam è in piedi, sistema qualche gingillo su una mensola e qualche faldone su uno scaffale.
“Aò, Fabrì...” fa Flavio appena finisce di smanettare sul computer. “Ce sta ‘sta storia de Faenza. Settimana prossima tocca che ce vai te.”
“Faenza?” chiedo, perplesso. Non ho idea di cosa cazzo stia parlando.
“Sì, stamo ad aprì l’impianto nuovo lì. Serve che qualcuno ce dà ‘na controllata prima che parte tutto: linea, impianto elettrico, raccordi... ‘na passata generale, capito?”
Annuisco piano.
“Ok.”
“Er piano è questo: piji er treno delle 8.20 da Termini. Alle 11.40 stai là, fai er giro, te rimetti sur treno pe’ le 4 e alle 8 stai bello bello a casetta tua. Manco dodici ore e hai fatto tutto.”
Incrocio lo sguardo di Lorenzo, che mi guarda quasi compatendomi. Marcello, invece, dà man forte al fratello.
“Io e Flavio semo bloccati qua pe’ ‘na consegna grossa, quindi... te tocca annà da solo.”
A quel punto, interviene Miriam.
“Se volete, posso andare io con Fabrizio. Ho seguito tutto, conosco già i referenti. Almeno vediamo anche com’è messa la parte commerciale.”
Flavio smette di trafficare con il cellulare, e la guarda con severità.
“Aò, ma te lo porti dietro pure ar cesso, sto pischello?”
“A Flà, e non comincia’.” risponde lei stizzita, facendo uscire spontaneamente la sua romanità.
Lui non si scompone, e guarda verso di me.
“Fabrì, oh, nun fa’ er cretino co’ mia sorella, eh. Sennò giuro che te gonfio.”
Poi ride, si alza e si avvicina a me, dandomi un buffetto sulla nuca.
“Daje, sto a scherzà… più o meno.”
Miriam lo fissa, apparentemente innervosita.
“E pure se fosse? Ho ventotto anni. Decido io con chi andare. E perché.”
Sento un brivido. Non so come interpretare quella frase, né tantomeno come l’abbiano interpretata Flavio e Marcello. Ma sto zitto.
Flavio sbuffa, poi conclude.
“Martedì. Intercity delle 8.20. Er treno lo prenotamo noi.”
*
Martedì mattina, ore 7.50. Alla Stazione Termini c’è già un discreto viavai di pendolari. Noto Miriam da lontano, mi fa un cenno con la mano. Arriva in jeans, sneakers e zaino leggero. Sul viso niente trucco, anzi un po’ di occhiaie. Forse anche lei ha dormito poco. Io di sicuro. Pensavo al viaggio, a lei, al fatto che avevamo una giornata intera nella quale non dovevamo nasconderci da nessuno né fare attenzione a niente.
Ci sediamo vicini, parliamo poco. Entrambi controlliamo un paio di mail, rispondiamo a un paio di messaggi. Ma sotto il tavolino, ogni tanto, le nostre mani si cercano.
A un certo punto, mi lancia uno sguardo.
“L’hai mai fatto in treno?”
“No…” dico io, rimanendo anche sorpreso da quella domanda. “Tu?”
“Nemmeno.” risponde, alzandosi in piedi. “Vieni.”
C’è poca gente nella nostra carrozza. Scandaglio tutti i presenti, poi realizzo che nessuno sta facendo caso a noi. Mi alzo anche io, quasi con timore, e la seguo. Arriviamo al giunto tra i vagoni, facciamo finta di chiacchierare mentre passano un paio di persone. Poi, quando non c’è più nessuno, svicoliamo dentro il bagno.
Per fortuna è ancora pulito, il viaggio è iniziato da poco. Forse troppo pulito. C’è un odore pungente di detersivo e di chimico. Forse Miriam c’è abituata, lavorando in un’azienda che produce cosmetici. Io no. Tossisco un paio di volte.
“Tutto bene?” mi domanda lei.
Le faccio segno di sì con il pollice. Lei si siede sul water chiuso e poggia una mano sulla patta dei miei pantaloni. A quel punto, mi passa tutto.
“Ora decisamente meglio.” le dico.
Mi sincero che la porta sia chiusa, lei decisa mi sbottona i jeans. Io le alzo la maglia per toccare, ancora, le sue tette. Non mi stancherò mai di farlo. Le sfioro con le dita, mentre lei si avvicina con le labbra al mio glande. È la prima volta che me lo prende in bocca. Goduria. Se lo infila tra le labbra, e io sobbalzo. Mi lascio sfuggire un grido di piacere, che forse si sente anche all’esterno. E infatti bussano.
Toc, toc.
“Occupato!” fa Miriam, svuotandosi la bocca dal mio membro.
Proviamo a proseguire per un po’, ma il fatto di sapere che c’è gente fuori mi mette ansia. Il mio pene perde vigore. Ma lei glielo fa riacquistare immediatamente infilandoselo tra le tette.
“Cazzo!” esclamo. Stavolta sono sicuro di essere stato sentito. Andiamo avanti ancora un minuto, lei lo fa scorrere lì in mezzo che è una meraviglia. Ma veniamo di nuovo interrotti.
Toc, toc, toc.
“Scusate, c’è gente che aspetta!”
Ci fermiamo. Con la morte negli occhi, la guardo facendo spallucce. Lei si copre la bocca per non ridere. Io mi sistemo, respiro piano, provo a far rientrare per quanto possibile la mia erezione.
“Vabbè, tocca rimandare.”
Miriam esce fingendo indifferenza, io divento paonazzo. Un anziano signore ci guarda e poi scuote la testa. Mi tremano ancora le mani, ma poi scoppio a ridere.
*
A Faenza il responsabile ci accoglie, ci offre un caffè terribile – classico aziendale - e ci fa vedere la linea. Tutto sembra andare bene, finché una valvola non dà problemi. Il dosatore non tiene, bisogna smontare. Sono costretto a chiamare Flavio.
“Flavio, tocca restare. Abbiamo qualche problemino.” dico al telefono.
Sento che sbuffa. Poi mi risponde, quasi spazientito.
“Vabbè, ve prenoto n’albergo. Ma camere separate, eh. Nun ve dico altro.”
“Sì, sì…” rispondo, tagliando corto.
Miriam sbuffa. Sono col vivavoce, ha sentito tutto.
“Flà, ma sul serio? Ancora?” dice stizzita.
“Ciao, sorellì. Me raccomanno.” chiude lui.
Raccomandati quanto vuoi, Flà. A me e Miriam ci aspetta una nottata in hotel, da soli, a 400 chilometri da te. Ci penso io alla tua sorellina.